Martedì scorso, il giorno prima della processione della madonna ad Oppido Mamertina, c’era stata una trattativa, sia pur informale, tra il maresciallo Andrea Marino che comanda la stazione dei carabinieri e i parrocchiani che avevano organizzato la processione della Vara. La linea era stata definita con chiarezza: nessun gesto di ossequio e devozione sarà consentito, durante il tragitto non sarà permesso effettuare alcuna sosta.
Il patto è saltato, nonostante le rassicurazioni della vigilia. Ecco perché il colonnello Lorenzo Falferi, comandante provinciale a Reggio, adesso scandisce la posizione dell’Arma: «Non possiamo accettare una simile deferenza da parte dei cittadini nei confronti di una persona condannata all’ergastolo e poiché non siamo privati cittadini abbiamo fatto esclusivamente quello che era il nostro dovere, allontanarci e denunciare».
Già nella giornata di venerdì alla Dda reggina era giunta la segnalazione dei carabinieri di Oppido il cui comandante, con i suoi uomini, aveva abbandonato la processione quando si era accorto di ciò che stava accadendo, avviando i primi accertamenti. L’indagine punta ad accertare l’eventuale rapporto tra i portatori della statua della Madonna e il boss, don Peppe Mezzagatti, e se la sosta era stata programmata. Oppure decisa all’ultimo momento. Il procuratore Federico Cafiero de Raho ieri è stato molto duro: «Ritengo che sia un fatto gravissimo che dimostra come la `ndrangheta controlli il territorio. Persino una manifestazione religiosa è piegata in ossequio a un boss. È un fatto sintomatico della sudditanza di un territorio nei confronti della criminalità».
Già, il territorio. La piana di Gioia Tauro è terra di ‘ndrangheta come forse nessun altra. Il vescovo, monsignor Milito, ora assicura che vedrà di ricostruire l’accaduto e ci saranno «provvedimenti». Ma sa bene, il vescovo di Oppido, che in quella diocesi già altri e più gravi segnali si erano colti grazie all’operato di don Memè, storico parroco di Rosarno, colui che non aveva esitato a deporre in un tribunale della Repubblica in difesa di quei boss mafiosi che Bergoglio ha inteso, invece, scomunicare. Come Ciccio Pesce, «un mio amico» ebbe a definirlo davanti a giudici increduli. Tanto da indurre il presidente del Tribunale a chiedergli: «Mi faccia capire, don Ascone, Rosarno quindi è un’isola felice?».

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Quando il caso scoppiò, monsignor Milito fece visita a don Memè e gli diede solidarietà. Davanti ai giudici, nel luglio dello scorso anno, il prete si era accomodato per dire: «Penso che Rosarno sia stato messo in una cattiva luce, non so da chi, è stata chiusa la sede scout per mafia, e siamo stati… siamo passati per razzisti, per cattivi contro i negri, c’è stata una serie di cose che hanno buttato fango su Rosarno, sui rosarnesi, e sull’intera Piana e molti stanno pagando innocentemente penso».
Don Memè alla domanda del giudice non ha più risposto preferendo glissare. Ma che Rosarno sia “isola felice” per lui e per la chiesa che rappresenta lo dimostra la devozione della famiglia Pesce che si è fatta carico di climatizzare la chiesa, probabilmente l’unica “casa del Signore” dove si può pregare senza sudare, grazie ai condizionatori installati dagli “amici” della famiglia Pesce. È uomo di gratitudine e riconoscenza il parroco di Rosarno, tanto che dieci mesi dopo la sua deposizione in favore dei boss, torna a indignarsi per difendere i bravi ragazzi rosarnesi dal fango mediatico. Nel marzo scorso, infatti, Le Iene si occupano di Rosarno, dei Pesce, del porto di Gioia e della cocaina che vi transita. E il nostro si presta volentieri come teste a discarico: «Rosarno non è un paese mafioso. È tutto falso che il sindaco sia stato minacciato con una lettera arrivata dal carcere. Quello che mi tocca dire purtroppo è che quando ci sono sindaci di sinistra sono protetti dai giudici; quando ci sono sindaci di centrodestra non sono protetti dai giudici, anzi…».
Infine, come se non bastasse, ha attaccato Luigi Ciotti, fondatore di Libera che nella Piana è molto attiva e si occupa di far lavorare giovani disoccupati nei terreni sequestrati ai mafiosi: «Non è un parroco, lavoro non ne ha, ha voluto prendere questa bandiera della lotta alla mafia come lavoro. Per combattere la mafia basta essere preti, non guardie della polizia, questa è propaganda». E poi ci meravigliamo per un inchino.