«Ci siamo presi una malattia costituzionale, ben più grave del Covid-19». A pronunciare questa frase, quasi come un avvertimento, è il presidente Kais Saied a maggio 2020, poco dopo aver criticato l’operato del parlamento. Un anno e due mesi dopo, l’ex professore di diritto cammina per Avenue Bourguiba in un bagno di folla avviandosi verso il ministero dell’Interno.

È la sera di un 25 luglio segnato da manifestazioni sparse per tutto il paese e represse, come accade da mesi, con la forza. Da settimane la Tunisia è travolta dalla più grave ondata di Covid-19 da marzo 2020, con picchi di contagi mai raggiunti, ospedali saturi e ossigeno che manca.

Ma la pandemia sparisce improvvisamente dalla prima pagina dei giornali radio: Saied ha annunciato lo stop delle attività del parlamento e assume il potere esecutivo, costringendo il premier Hichem Mechichi alle dimissioni. La Tunisia è arrivata al punto di rottura.

Uno scenario inaspettato o prevedibile? Probabile. Tanto che c’è chi evoca un documento anonimo circolato mesi fa e diffuso dal media Middle East Eye (vicino al Qatar) che annunciava un imminente colpo di Stato programmato dalla presidenza. Se l’origine del documento in questione non è chiara – sembra essere in qualche modo ricollegato a una società privata di consulenza, fa sapere il media tunisino Barr El-Aman in un lungo fact-checking – costituisce una prova (almeno) della crescente tensione tra il partito di maggioranza in parlamento, gli islamisti di Ennahda, e il presidente della Repubblica. Che da mesi tentano di destabilizzarsi l’un l’altro.

In Tunisia, la tensione ai vertici dello Stato si accumula da tempo. Dopo la caduta del governo di Elyes Fakhfakh a settembre 2020, il presidente della Repubblica dà l’incarico a Hichem Mechichi, ex ministro dell’Interno. Quello di Mechichi è il terzo esecutivo a insediarsi dalle elezioni legislative di ottobre 2019. Un governo apartitico, composto essenzialmente da tecnocrati: non piace al parlamento ma deve rappresentare «la svolta» per il presidente Saied.

Ma a gennaio, sotto pressione da un lato e dall’altro, Mechichi alla fine scende a patti con i partiti e annuncia un maxi rimpasto con nomi vicini a di Ennahda e Qalb Tounes. Kais Saied non approva. Dal 18 gennaio il presidente rifiuta che il nuovo governo presti giuramento, compromettendo così il normale funzionamento delle istituzioni. Il 27 febbraio Ennahda sfrutta le proprie reti di influenza e, facendo arrivare pullman provenienti da tutto il paese nella capitale, porta in piazza migliaia di persone a sostegno del governo.

La situazione non si sblocca, il braccio di ferro prosegue. Mentre i tre presidenti sono alla resa dei conti (della Repubblica, Kais Saied; del parlamento, Rached Ghannouchi; del governo, Hichem Mechichi), le condizioni di vita dei tunisini si degradano di giorno in giorno. I prezzi dei generi alimentari continuano ad aumentare, gli scioperi si moltiplicano: prima i medici, gli ingegneri e gli insegnanti, poi perfino i venditori di sigarette.

La pandemia ha dato il colpo di grazia a un paese in ginocchio. Nelle ultime tre settimane, mentre i contagi crescevano di giorno in giorno con picchi da 9mila in un paese di 12 milioni di abitanti, la politica è rimasta in silenzio. Un silenzio diventato assordante, così gli appelli a scendere in piazza il 25 luglio hanno cominciato a circolare su Facebook. Il «movimento del 25 luglio», che non è chiaro da chi sia guidato, è riuscito a intercettare il malcontento crescente.

Anche gli indecisi, di fronte all’assenza di alternative, sono scesi in piazza contro governo e parlamento. Ecco il perché del sostegno della piazza alla decisione di Saied. Ma lunedì mattina la Tunisia si è risvegliata divisa: «Sono contento che un governo incapace e pericoloso sia stato tolto di mezzo, ma ho paura per il nostro domani», riassume Talel, attore di 30 anni e militante durante la rivoluzione del 2011, che non ha ancora deciso se approva o meno la definizione di colpo di Stato.