Questa è follia, se pure c’è del nesso,’ dice Polonio di Amleto. In inglese Shakespeare dice: ‘there is method in his madness’. Metodo e follia. La pazzia focalizzata. La mania disciplinata. Nel settembre 1989 Daniel Day-Lewis stava recitando Amleto al National Theatre di Londra e nel bel mezzo della tragedia uscì dal palcoscenico senza ritornarci. Girava voce che avesse visto suo padre, il poeta Cecil Day-Lewis, morto quando Daniel aveva quindici anni. Passò del tempo e Day-Lewis ammise che questa storia non era esattamente vera – una crisi c’era stata ma non aveva visto il fantasma del padre. Tuttavia, la storia è entrata nella leggenda che circonda l’attore anglo-irlandese.

Lo stesso anno dell’Amleto abbandonato, Day-Lewis vince un Oscar per la sua performance nel ruolo di Christy Brown in Il mio piede sinistro, il suo primo Oscar, seguito da quelli per Il Petroliere e per Lincoln, un record per l’Academy.

Per il film di Jim Sheridan, l’attore rimase sempre nel personaggio, seduto nella sedia a rotelle per tutte le riprese con i membri della troupe che lo imboccavano con un cucchiaio durante la pausa pranzo. Per L’ultimo dei Mohicani visse da solo nel bosco per sei mesi. Per The Boxer si addestrò per tre anni come pugile. Tre anni! Per Nel nome di padre alcuni ex-poliziotti della Special Branch lo tennero sveglio per tre giorni in una cella per poi sottoporlo ad un interrogatorio di nove ore prima di girare la scena in cui il suo personaggio confessa di aver avuto parte in un attacco terroristico. Si giutificò dicendo che non c’era altro modo di capire come Gerry Conlon avesse confessato un reato che non aveva comesso, auto-incriminandosi e trascorrendo quindici anni in prigione.

Si può fare un paragone con Robert De Niro al suo meglio, ma Day-Lewis è forse ancora più intenso. Per questo necessita di qualche anno tra un film e l’altro per recuperare le forze. Ha spesso raccontato di come, dopo aver completato un film, si senta vuoto e depresso.

Finito di girare Gangs of New York, il suo ruolo di Bill the Butcher – a cui si era addestrato ovviamente per un mese – gli rimane dentro, e per un anno Day-Lewis parla nel suo dialetto newyorkese dell’800. Vista l’energia e il tempo investiti, non dovrebbe meravigliare che scelga i suoi ruoli con tanta cura e cautela. Pochi i film brutti nella sua filmografia. Forse Nine è l’unico e nemmeno così male. E’ stato richiesto dai migliori registi come Scorsese e Spielberg, ma anche un piccolo film come La storia di Jack e Rose del 2005 è straordinario.

Dire ‘basta!’ a soli 60 anni sembra anche questa una pazzia; ma lo è veramente? Sicuramente c’è da rimpiangere i film non fatti, i capolavori incompiuiti, ma a differenza di De Niro che dopo Casinò del 1995 ha girato pochissimi film di nota, non rischia di macchiare la sua reputazione con commedie di dubbio gusto.

Day-Lewis dice che nella sua vita vera è altrettanto curioso di quando è alla ricerca di un ruolo. Ha studiato in Italia con Stefano Bemer per diventare calzolaio durante cinque anni sabbatici fra film e durante un altro ritiro lavorativo in una fattoria in Irlanda ha descritto la sua vita come ‘uno studio permanente di evasione’. In questo mondo di supereroi e fama senza talento in cui De Niro gira Nonno scatenato, ritirarsi così ha un che di folle ma nella follia c’è sempre un metodo.