Tra Due e Trecento l’arte italiana subì una svolta epocale. In una manciata di anni e grazie ad alcuni artisti il mutamento dello stile si fece radicale: una riappropriazione dei caratteri di quello che oggi, col senno del poi e da spettatori del secondo millennio, definiamo come ‘naturalismo’. Uno dei protagonisti assoluti di questo mutamento è stato Giovanni Pisano. Sin dagli anni sessanta del Duecento, quando lavora insieme al padre Nicola al pulpito della cattedrale di Siena, Giovanni ricopre un ruolo di spicco nella bottega paterna.
Le recenti ricerche di Max Seidel hanno dimostrato come all’artista venisse corrisposto un compenso di poco inferiore a quello di Nicola, segno del riconoscimento di un ruolo che non doveva essere di semplice ‘aiuto’. Quando nel 1276-’78 appone la sua ‘firma’, insieme a quella di Nicola, sulla Fontana Maggiore di Perugia, Giovanni è ormai un artista avviato verso un’attività autonoma. Di lì a breve si sarebbe trasferito a Siena dove, per tutto il corso degli anni ottanta e novanta, avrebbe esercitato un ruolo di spicco nel cantiere della cattedrale: basti ricordare lo stupefacente ciclo di sculture che ne adornano la facciata. Un vero unicum nell’intera Europa gotica.
La matura attività dell’artista, che coincide con il nuovo secolo, è segnata da alcuni dei vertici della scultura trecentesca: il pulpito per la pieve di Sant’Andrea a Pistoia (ultimato entro il 1301) e quello per la cattedrale di Pisa (ultimato entro il 1310), dove Giovanni lasciò due iscrizioni celebrative che hanno giustamente attirato l’attenzione degli studiosi. Attorno a queste opere monumentali, in cui lo scultore spinge il suo linguaggio artistico a vertici che rimarranno ineguagliati per secoli, stanno anche una serie di opere realizzate in materiali diversi, come il legno o l’avorio; e, per quanto non siano state rintracciate oreficerie a lui attribuibili, l’iscrizione del pulpito di Pisa ricorda anche la sua capacità di lavorare l’oro.
Già così emerge l’assoluta centralità della vicenda artistica di Giovanni per gli svolgimenti della storia dell’arte occidentale. Sino al 20 agosto sarà possibile ammirare alcune delle opere di questo sommo scultore a Pistoia, nelle sale di Palazzo Fabroni. Omaggio a Giovanni Pisano, questo il titolo della mostra curata da Roberto Bartalini con la collaborazione di Sabina Spannocchi, da un’idea di Giovanni Agosti. L’esposizione presenta una selezione di poche opere, di qualità eccelsa. Nella cornice delle attività legate al programma di Pistoia Capitale della Cultura 2017, si è scelto di riunire alcune sculture nel museo che sta esattamente di fronte alla Pieve di Sant’Andrea. Il cortocircuito è di quelli davvero emozionanti: una volta visitata la mostra si può attraversare la strada e, con gli occhi ancora carichi delle opere appena viste, si può ammirare il pulpito che l’artista realizzò quasi interamente da solo, garantendo così un livello qualitativo vertiginoso a questa vera e propria microarchitettura.
A partire dal rilievo di Nicola Pisano che raffigura le Stimmate di San Francesco, frutto della tarda attività del padre di Giovanni, che costituisce una sorta di preludio a segnare il passaggio di consegne tra padre e figlio, il percorso permette di seguire alcuni dei momenti cruciali del percorso artistico del più giovane dei due scultori attraverso alcune delle sue creazioni più significative. La scelta di dedicare ogni sala a una singola opera permette di evitare il fastidioso effetto «rumore di fondo», quando troppe opere ingombrano sale troppo piccole. In questo caso, invece, le opere sono protagoniste dello spazio. In un allestimento di rara pulizia formale (frutto delle competenze dello studio Guicciardini & Magni Architetti, con la collaborazione di Filippo Fornai), dove alle sei opere in mostra è associato un pannello di colore diverso per ogni scultura, il visitatore può ammirare da vicino le creazioni dei due scultori. Oltre a quelle toscane (da Siena, da Empoli, da Pisa e dalla stessa Pistoia) è presente anche la Giustizia, uno dei frammenti del monumento funebre di Margherita di Brabante – consorte di Enrico VII – che l’artista realizzò a Genova intorno al 1313.
Un ruolo di rilievo lo hanno le opere in legno, in particolare quattro crocifissi. Questi sembrano quasi costituire una sorta di ‘mostra nella mostra’. A partire infatti dal Crocifisso del Museo dell’Opera del Duomo di Siena, frutto dell’attività degli anni ottanta del Duecento, quando lo scultore è attivo per il cantiere della cattedrale senese – l’unico a conservare ancora la croce originale –, si può seguire l’evolvere della tipologia di questo soggetto che Giovanni Pisano sviluppò nel corso di qualche decennio. I due crocifissi dalla Pieve di Sant’Andrea (solo uno venne concepito ab origine per questa chiesa, l’altro vi giunse ricoverato nel XVIII secolo da Santa Maria a Ripalta) sono di qualche anno successivi (1300 circa), e lasciano cogliere la maggiore insistenza su alcuni aspetti che saranno tipici della tarda attività dell’artista. Per la prima volta, poi, è presentato il monumentale Crocifisso di San Bartolomeo in Pantano, come opera da scalare negli anni dell’estrema maturità dello scultore, da leggere in rapporto alle forme degli«specchi» del pulpito del Duomo di Pisa. E così scaturiscono anche nuove prospettive interpretative, rese possibili proprio da un’occasione come quella di questa mostra.
Giorgio Vasari, nella seconda edizione delle Vite (1568), nelle pagine dedicate a Nicola e Giovanni Pisano, pur sottolineando certi caratteri stilistici che a lui – storico e artista abituato alla corte medicea del Cinquecento – proprio non piacevano, rilevava altresì come ai due scultori si dovesse riconoscere un gran merito «poiché in tempi privi di ogni bontà di disegno diedero in tante tenebre non piccolo lume alle cose di quest’arti». Un lume che ci meraviglia ancora oggi.