La scienza con le sue ipotesi e previsioni, con le sue strategie di tracciamento è sempre più sospinta ai margini della scena dall’orientamento verso una misura politica ad alto impatto terroristico, di discutibile efficacia sanitaria e sostanzialmente priva di argomentazioni razionali a suo sostegno: il coprifuoco nazionale. All’ombra di questa decisione che risponde alla logica semplificata delle soluzioni militari si gioca una torbida partita tra poteri centrali e periferici. I governatori delle regioni più colpite dall’epidemia rivendicano «pieni poteri» nell’imporre misure restrittive nei propri territori. E tuttavia, quando si tratti delle più pesanti, ne pretendono l’estensione «nazionale».

Non vi è in questa pretesa contraddittoria alcun criterio epidemiologico, ma una banale ragione di concorrenza. Istruzione, attività produttive, libertà individuali, risulterebbero favorite in alcune zone rispetto ad altre e questo non mancherebbe di minare il consenso e l’apprezzamento dei cittadini nei confronti dei rispettivi governi regionali in carica.

La stessa partita si gioca, in termini rovesciati, sul piano delle concessioni, deroghe e aperture. Il mito della competitività sopravvive alla pandemia assumendo tratti ancora più arcigni. Difficile immaginare una versione più ottusa della solidarietà nazionale di quella messa in luce da siffatte posizioni. Che ricordano più la stagione grottesca e disordinata dei sindaci sceriffi che non un complessivo disegno di controllo sociale.

A queste pressioni ispirate da un «egualitarismo punitivo» il governo Conte cerca di opporre una qualche resistenza. Eppure nella sua impressionante banalità il coprifuoco esercita un’attrazione irresistibile su poteri che poco hanno fatto e ancor meno sanno oggi cosa fare. Cosicché il governo si accinge a decretarlo su tutto il territorio nazionale. Senza uno straccio di argomento che lo giustifichi, semmai possa essere giustificato, fuori dai territori ad alta incidenza di contagi.

Se vi è una direttiva che illumina pienamente l’ideologia che sottende la chiusura di ogni spazio libero dal lavoro e dal «principio di prestazione» è quella di conio francese che impone al personale sanitario positivo al virus di continuare a lavorare osservando però la quarantena fuori dall’orario di lavoro. Una soluzione schiavistica alla mancata assunzione del necessario personale sanitario, che molto ricorda quegli ultimi fuochi di guerre perdute, quando si mandavano al fronte gli invalidi e i ragazzini. Ma oramai l’atmosfera «bellica» è talmente diffusa da non risparmiare più ambito alcuno.

Quella tra il giorno produttivo e la notte oziosa è una contrapposizione simbolica e disciplinare che neanche il primo rigidissimo lockdown aveva stabilito non imponendo orari a quel poco di fruizione dello spazio aperto che restava consentito.
Così a una movida che a locali chiusi e abituali piazze sorvegliate avrebbe ben poche possibilità di riprodursi rischia di subentrare una notte inquietante e pericolosa, popolata da disgraziati, vandali e piromani e dalla rabbia di quanti hanno ben poco da perdere. La militarizzazione del territorio è in genere la risposta più frequente, iniqua e odiosa a questo genere di situazioni. Ed è esattamente la spirale che sta per essere innescata.

L’aria che si respira in questo clima da stato di assedio (e che fa a pugni con tutti i patriottici appelli alla responsabilità e alla collaborazione dei cittadini) è destinata a esacerbare le tensioni e a favorirne gli sbocchi violenti. La violenza non è infatti, salvo eccezioni patologiche, un’inclinazione onanistica, ma una forma di relazione. E nell’imposizione di un coprifuoco, con l’impiego di tutti gli strumenti repressivi necessari alla sua applicazione, è proprio questa forma di relazione a essere instaurata, a vari gradi di intensità.

La combinazione tra questa modalità di rapporto tra governanti e governati e la rabbia per i ritardi, le inadempienze e le scelte spesso discriminatorie dello stato e delle sue articolazioni nel sostenere i redditi abbattuti dalla paralisi pandemica costituisce una miscela altamente esplosiva. Senza contare il fatto che ampi settori di popolazione sono completamente esclusi dalla tassonomia corporativa che presiede alla distribuzione dei «ristori», termine odiosamente minimalista e caritatevole.

Questo il contesto nel quale hanno preso forma le manifestazioni, gli scontri e le azioni di protesta in varie città italiane ed europee. Quale che sia la composizione sociale (per non parlare dei tortuosi e spuri orientamenti politici) di queste insorgenze non sarà l’iniqua omogeneità delle restrizioni a porvi fine. E ancor meno la riduzione della società a pura e semplice forza produttiva, non quella complessa e articolata che genera la ricchezza anche extraeconomica della nostra vita sociale, ma quella disciplinata, certificata e illuminata dalla luce del giorno.