Bentornati negli anni ’80: quelli veri, non quelli ridipinti dalla nostalgia. La location è il litorale di Roma: un postaccio stando alle cronache nere del XXI secolo, ma le cose non erano molto diverse anche trent’anni fa. Era la stessa terra di nessuno, a pochi km da Roma eppure non Roma: una sorta di periferia estrema, violenta e desolata.

IN QUEL DECENNIO, che il sortilegio della memoria e della smemoratezza ha reso molto più scintillante di quanto non fosse, sul litorale come nella metropoli la roba la si sparava in vena invece di sniffarla o cuocerla, e i tossici sbandati erano davvero pronti a tutto, anche a vendersi la figlia ancora nemmeno adolescente. Qualcosa del genere deve essere capitato a Emma, la bambina difficile, manesca e incontrollabile, che si masturba a sangue in classe per la disperazione delle maestre e che la stessa madre chiede di piazzare da qualche parte, poco importa dove, purché non più sulle sue spalle.

NON È LA BRUTALITÀ della vita nei casermoni popolari o nei viali dello spaccio che fa sembrare quegli anni lontanissimi. E’ l’eco allora ancora vicinissima di una politica e intesa come esperienza totale e assoluta. La vive così il padre di Martino, il protagonista di Hostia (Round Robin, pp. 429, euro 17), terzo romanzo di Federico Bonadonna, il cui titolo gioca sul nome di quella che oggi è una frazione di Roma e la parola latina che significa «vittime», «ostaggi». Martino è un assistente sociale che spinge il fumo per pagarsi la psicoanalisi e rischia di farsi rompere le ossa dai piccoli signori locali dello spaccio. Suo padre, militante del Pci emarginato perché dissidente, è uno di quelli che vivono solo di politica, come oggi se ne trovano solo se si tratta di lavoro stipendiato. La madre, ex partigiana, alcolizzata e squilibrata però a modo suo non priva di lucidità, invece vive di amore-odio per il marito infedele ed è una passione tanto totalizzante quanto quella del coniuge per la politica.
È Martino a doversi occupare del caso di Emma e la situazione straziante della bambina evoca sensazioni sepolte, scongela ricordi, lo spinge a tornare in analisi. Il romanzo è un gioco di specchi in cui Emma è allo stesso tempo reale e riflesso degli abusi, di tutt’altro tipo e gravità, subìti a sua volta dal protagonista. Cercando di prendersi cura della bambina, Martino cerca un balsamo per le sue stesse ferite.

NEL TRAUMA INFLITTO a Emma, che scopre poco a poco, trova tracce di quello che grava su di lui. In apparenza sono situazioni incomparabili. Invece la violenza materiale, figlia del disagio sociale, in cui è cresciuta Emma procede appaiata con quella psicologica ed emotiva, propria di ambienti colti e meno disagiati, di cui è stato vittima Martino.

L’ABILITÀ di Federico Bonadonna sta nel raccontare una storia durissima con la competenza di chi, con alle spalle anni di pratica come assistente sociale, non parla a casaccio, però senza mai degenerare nel realismo di maniera. L’autore punta invece su una serie di effetti grotteschi, a tratti decisamente comici, che impediscono alla vicenda di trasformarsi in una galleria di orrori quotidiani e ne stemperano la cupezza. Bonadonna sfugge alla trappola che abbatte quasi i tutti i narratori italiani, lo scoglio dei dialoghi. Sfoggia invece vera maestria nel restituire, con un mix di dialetto e italiano, la verità del parlato. Non è solo esercizio di stile: il modo di parlare dei diversi personaggi, la gradazione del ricorso al dialetto, diventa essenziale nel delineare e connotare i personaggi.

SOPRATTUTTO, Bonadonna evita la tentazione di giudicare, missione sempre difficile e tanto più quando di mezzo c’è una materia tanto delicata quanto gli abusi sui minori. Sa che dietro i carnefici si nascondono quasi sempre vittime a loro volta abusate, che devono misurarsi per tutta la vita con quelle ferite profonde. Qualcuno ce la fa, qualcuno, come i genitori di Emma, soccombe. Qualcuno, come la madre di Martino che forse è la vera protagonista del libro e certamente il personaggio più complesso, resta a metà strada. Ma è proprio il rifiuto di ogni giudizio che permette allo scrittore di trasformare una storia di disperazione in veicolo di speranza.