Se c’è una proprietà che altri linguaggi animali sembrano non avere – pare – questa è la ricorsività, ovvero la possibilità di «iterare all’infinito un processo sulla stessa struttura». In altre parole, la possibilità di costruire frasi sempre nuove inserendo, in una frase di partenza, un’altra frase, e poi in questa un’altra frase ancora, in una specie di gioco di scatole cinesi, che può durare ad libitum. Così, se una frase come «ho visto un leone» è plausibile in molte specie animali, una frase come «ho visto un leone e una gazzella e un serpente», o «ti dico che ho visto un leone e una gazzella e un serpente» la possiamo formulare, pare, solo noi umani. E ancora: se è possibile che un animale possa dire qualcosa di equivalente al nostro «ho fame», a quanto pare solo noi possiamo formulare frasi come «sto dicendo che ho fame», «sai che sto dicendo che ho fame», «sostengo che sai che sto dicendo che ho fame e vorrei mangiare», «ho fame e sete», «ho fame e sete e sono anche molto stanco», «ho fame e sete e sono anche molto stanco e non mi va di far nulla».

SOLO NOI ESSERI UMANI possiamo replicare a piacere uno stesso procedimento, una stessa regola – la coordinazione e la subordinazione, come negli esempi precedenti – per formare frasi complesse di lunghezza sempre crescente (e solo noi, tra l’altro, possiamo parlare del linguaggio che usiamo, cioè dire «sto dicendo che…»). Solo nel linguaggio umano la struttura delle frasi è «a incasso», il numero delle frasi possibili potenzialmente infinito, e la loro lunghezza teoricamente illimitata. Potenzialmente e teoricamente, perché poi invece la nostra memoria, il tempo a nostra disposizione, lo spazio di cui ci serviamo per scrivere o pronunciare queste frasi ha, necessariamente, dei limiti. E quindi la nostra capacità potenziale, o meglio la nostra competenza, non sempre trova riscontro nell’esecuzione. Eppure, per quanto ne sappiamo, solo noi abbiamo in dote la ricorsività, appunto. E la possibilità di applicarla.
Ecco, questo sembra il vero discrimine: noi possiamo ricorrere a questa proprietà, tutti gli altri animali no. Tuttavia, meglio non montarsi troppo la testa. Il nostro linguaggio è sì molto più ricco e articolato di quello degli altri animali, ma non è che sulla comunicazione delle altre specie sappiamo poi così tanto. E ciò che sappiamo, comunque, qualche perplessità ce la può legittimamente far sorgere.

ALCUNI TIPI DI UCCELLI (non solo i pappagalli, ma anche i colibrì e gli uccelli canori) possono produrre suoni vocalici complessi, come noi. Lo notava già Aristotele nella sua Historia animalium: alcune specie di uccelli sono in grado di emettere voci articolate (dialektos) che somigliano alla produzione vocale umana e che vengono trasmesse tramite apprendimento, come avviene per la nostra specie: al punto che uccelli cresciuti lontano dai genitori producono i canti a cui sono stati esposti nell’ambiente di allevamento piuttosto che quelli propri della loro specie di appartenenza. E l’avrebbe notato, un po’ di secoli dopo e in modo più sistematico, Charles Darwin, il quale nell’Origine dell’uomo e la selezione sessuale scriveva senza timore di essere smentito che anche tra gli uccelli «i piccoli che hanno imparato il canto di una specie distinta … insegnano e trasmettono nuovi canti ai loro discendenti».
Darwin aveva intuito cose che sarebbero poi state studiate in dettaglio solo molto più tardi. Come appunto il parallelismo tra il modo in cui i bambini apprendono a parlare, e quello in cui gli uccelli canori imparano a cinguettare. Per entrambi – ci dicono gli studi più recenti – l’apprendimento vocale risulta essere il prodotto di predisposizioni biologiche innate ed esperienze specifiche. Ad esempio, quando giovani esemplari di uccelli canori vengono esposti simultaneamente al canto tipico della propria specie e a quello di una specie differente, essi tendono a imitare prevalentemente il canto dei conspecifici, sebbene siano perfettamente in grado di riprodurre anche l’altro. Come nei bambini umani.

E ANCORA, giovani uccelli canori somiglierebbero a giovani esseri umani anche perché il loro apprendimento sonoro-uditivo avverrebbe in un determinato periodo critico: esemplari passero dalla corona bianca, sottoposti all’apprendimento di un nuovo canto, passato un certo periodo dalla nascita non sarebbero più in grado di assimilare perfettamente le melodie ascoltate. Anche i bambini, passata un’età critica, non sarebbero più in grado di assimilare perfettamente i suoni di una nuova lingua, non quanto almeno farebbe un parlante madrelingua?
C’è anche chi con queste analogie si spinge più lontano. Secondo alcuni studiosi, il canto degli uccelli canori somiglierebbe al linguaggio umano anche relativamente alla sintassi. Il canto del passero del Giappone sarebbe caratterizzato da strutture sintattiche complesse. Non solo: questo passero sarebbe anche in grado di discriminare sequenze sillabiche sulla base della sintassi e di ricombinarle creativamente. Ovvero, in altri termini, di distinguere – in sequenze sillabiche prodotte artificialmente – quelle corrette da quelle scorrette, come dimostrerebbero gli studi di Kazuo Okanoya, Kentaro Abe e Dai Watanabe.
Dopo aver ascoltato sequenze scorrette, i passeri del Giappone smetterebbero di cantare e di interagire, come se l’input loro fornito non fosse stato compreso. Un’abilità che si riteneva esclusivamente umana. Evidentemente a torto.