Il linguaggio poetico, fin dalle origini è anche musica. Diderot, raffinato linguista, geniale esploratore delle forme letterarie e in particolare del teatro, era anche un finissimo intenditore di musica, e avanza il sospetto che la musica nasca non dal linguaggio, come fino allora si supponeva, ma dal grido. Afferma anzi che la musica vocale gli aveva sempre fatto l’impressione di una sorta di stilizzazione del grido animale. Forse pensava a Gluck. Le sue riflessioni si ponevano al termine di una lunga indagine sul rapporto tra musica e linguaggio. Il paragone nasce per metafora, in un trattato del IX sec., il Musica enchiriadis, attribuito a Oddone di Cluny: «Come le lettere dell’alfabeto sono le parti elementari e indivisibili della voce articolata, di cui si compongono le sillabe, che a loro volta compongono i verbi e i sostantivi con cui si forma il testo di un discorso concluso, così le note sono gli elementi primi della voce cantata, dalle sue combinazioni nascono gli intervalli e dalla combinazione di essi i sistemi musicali». Il confronto avrà un successo insperato che dura fino ai nostri giorni. Se noi oggi usiamo un’espressione come «linguaggio musicale», nasce da qui. Ma l’espressione non è priva di equivoci.

Nella civiltà classica la musica destava emozioni, ma non ne era l’espressione. E soprattutto non era considerata linguaggio. Con l’avvento della polifonia la musica acquista un’autonomia costruttiva che la fa assomigliare, appunto, come nota il Musica enchiriadis, al linguaggio. Ma non è ancora semantica, non significa, come significa il linguaggio. Con il madrigale rinascimentale la musica si scopre capace di rappresentarle, le emozioni, oltre che di provocarle. E qui comincia una nuova storia. Ripercorrerla ci farà scoprire peculiarità e differenze specifiche della musica, fino a quel tempo sconosciute. Fino all’avvento della polifonia, infatti, il senso, il significato della musica era riconosciuto dalle parole del canto. E quando si trattava, invece, di musica senza parole, suonata da soli strumenti, il suo senso lo si riconosceva nella sua funzione: una danza, una marcia, una processione (ma questa quasi sempre era accompagnata da canti corali).

La polifonia introduce una costruzione musicale autonoma rispetto alle parole. Il senso continua ad essere quello delle parole, un Kyrie, un requiem, una chanson. Ma il valore era sentito nell’artificio, nella sapienza della costruzione. Il madrigale rinascimentale, polifonico, introduce un nuovo parametro di giudizio. Le parole della poesia acquistano evidenza musicale attraverso artifici visivi: i madrigali non erano destinati a un pubblico, ma agli stessi esecutori, come avverrà due secoli dopo con il quartetto per archi. Il musicista allora si diverte a sorprendere gli interpreti con figurazioni musicali che alludono per analogia al testo: una dissonanza per «aspri tormenti», una scala ascendente per un’idea di ascensione («chi salirà per me, Madonna, in cielo?», Ariosto), due valori lunghi, vuoti, due longae, se il testo parla di «duo chiari lumi», ecc. Si formò così l’idea che la musica potesse rappresentare le emozioni, le immagini o, come si diceva, gli affetti.

Da quest’idea nacque il melodramma, l’idea che la musica «recitasse» i sentimenti intonando un testo. Una quarta discedente rappresentava il lamento. Un intervallo ascendente la gioia. Si formulò in musica tutto un codice retorico degli affetti corrispondente al codice dell’«orazione», della poesia. Frescobadi trasferì questo codice sugli strumenti. Anche senza le parole una quarta discendente è dolore, un intervallo ascendente è gioia. Tutto il teatro e la musica strumentale barocca, ma anche poi dell’Illuminismo, vi si conformarono. Il passo definitivo che conduce all’identità di musica e linguaggio, ad affermare che la musica «esprime» i sentimenti, fu compiuto dai romantici. Schumann afferma: «L’estetica di un’arte è l’estetica di tutte le altre». Il resto è storia di oggi.