La questione carceraria è una questione giuridica, politica, sociale, economica, architettonica, ma anche culturale e più genericamente educativa. Nei giorni scorsi ho incontrato Zerocalcare nel corso di un evento organizzato dal Museo Storico della Liberazione a Roma, in quegli edifici di via Tasso dove tra il settembre 1943 e il giugno del 1944 i nazisti imprigionarono e torturarono circa duemila partigiani, militari e cittadini comuni.

Zerocalcare ricordava come lo scorso settembre avesse pubblicato su Internazionale un suo reportage a fumetti sulle rivolte in carcere. Tra lo stupito e l’amareggiato spiegava come, mentre su altri temi i lettori si erano mostrati solidali ed empatici, a proposito del carcere, invece, questo non era accaduto e qualcuno gli avesse finanche scritto che l’unica giusta fine per i detenuti fosse quella di marcire in galera.

Parole di questo tenore, fino a poco tempo fa, le abbiamo sentite dire da chi rivestiva alti incarichi istituzionali. Non ci si può dunque sorprendere se i sentimenti diffusi tra la gente degenerino in impulsi truci di vendetta ed espressioni di odio. Basta farsi un giro in alcuni siti web specializzati per leggere frasi piene di volgarità rivolte al sottoscritto o a Mauro Palma, garante nazionale, accusati di stare dalla parte dei detenuti e quindi, di converso, di essere contro i poliziotti, come se stessimo in uno stadio a tifare per una squadra o l’altra in una partita di calcio.

La prima cosa di cui oggi abbiamo tutti bisogno è una rivoluzione del linguaggio nel nome della gentilezza e del rispetto. Non sapevo che esistesse una giornata internazionale della gentilezza, il 13 novembre, indetta dalle Nazioni Unite. Andrebbe festeggiata l’anno prossimo in un carcere, simbolicamente.

Quando si parla di temi sensibili che possono alimentare emozioni forti o reazioni esasperate, è necessario che si adotti un linguaggio sobrio, mite, riguardoso e, dunque, gentile. Mai più vorremmo sentire, da chi ha incarichi politici istituzionali, frasi che lasciano trasparire la voglia di vendetta, che associano i detenuti alle bestie o invocano il gettare la chiave della cella per sempre. Mai più vorremmo che i media mainstream offrano occasioni o palcoscenico a chi usa un linguaggio profondamente distonico rispetto a quanto scolpito nell’articolo 27 della nostra Costituzione che, ricordo, è frutto anche dell’esperienza di prigionia di tanti antifascisti durante il ventennio.

«Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»: questa è la visione costituzionale della pena. E su questa visione costituzionale devono convergere tutti gli attori del sistema pubblico, dal poliziotto al volontario, dal direttore al magistrato, dall’avvocato al giornalista. Questa, e non altra, deve essere la visione della pena promossa dalle autorità di Governo. Per questo siamo confortati, a proposito del carcere, dalle parole miti, rispettose e gentili della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Perché solo quando verrà recuperata una funzione pedagogica da parte di chi ha ruoli di governo, allora ci si potrà attendere, a cascata, una frenata nella cultura dell’odio e della vendetta.

L’autore è presidente di Antigone