Poteva essere la “strage del Ramadan” ieri nella periferia meridionale di Beirut, la roccaforte di Hezbollah. I 40 kg di esplosivo piazzati in un’auto parcheggiata a pochi metri dal centro commerciale di Bir al Abed e da un centro islamico affollato di fedeli sciiti, dovevano nelle intenzioni degli attentatori provocare un massacro. Invece l’esplosione ha causato un incendio, ha distrutto una quindicina di automobili, danneggiato i palazzi circostanti e alzato una lunga colonna di fumo nero ma non ha fatto morti. I feriti sono stati 53, dei quali 14 in gravi condizioni, ha comunicato nel pomeriggio il ministro della salute Ali Hassan Khalil. Se per fortuna non c’è stata la strage di civili, l’attentato da un punto di vista politico e sociale rappresenta un ulteriore, deciso passo verso il baratro di una nuova seconda guerra civile a sfondo settario in un Libano che già ora è terreno di scontro per oppositori e sostenitori del presidente Bashar Assad nella confinante Siria.

Ieri mentre la sicurezza di Hezbollah sigillava la zona dell’esplosione attuando misure di controllo molto rigide e il ministro dell’interno Marwan Charbel sfuggiva per un pelo alla folla inferocita di Bir al Abed, a Tripoli i sunniti più radicali – quelli che vivono nel quartiere di Bab Tabbaneh che tanti miliziani regala alla ribellione armata contro Assad – festeggiavano l’attentato sparando in aria. Una vittoria per loro perchè quella bomba esplosa a breve distanza dal “zona rossa” di Hezbollah, dove ci sono i siti “sensibili” del movimento sciita, è un avvertimento preciso: possiamo colpire nel cuore della vostra roccaforte. E Hezbollah  ha accusato il colpo. Perchè una cosa è il lancio di un paio piccoli razzi verso la periferia sud di Beirut, come è avvenuto nelle settimane passate, oppure i piccoli ordigni piazzati sulla statale che corre lungo la Valle della Bekaa a danno dei convogli della guerriglia sciita. Ben altra cosa è un’autobomba che attraversa l’intera area di Dahiyeh e viene parcheggiata a pochi metri da alcuni degli uffici più importanti di Hezbollah nonostante le misure di sicurezza e le migliaia di occhi di simpatizzanti, attivisti e semplici cittadini che osservano ogni movimento a Bir el Abed. Negli ultimi anni solo Israele è riuscito a colpire in modo più devastante in questa parte di Beirut: nel 2006 quando con i suoi bombardieri rase al suolo Bir al Abed e il vicino Hart Harek e con essi tutte le strutture di Hezbollah, inclusa la sede della televisione al Manar.

Ieri uno degli eletti del movimento sciita in Parlamento, Ali Meqdad, ha detto che l’accaduto è «il frutto di agenti che stanno cercando di destabilizzare il Libano». Più esplicito un suo collega, Ali Ammar, che ha puntato  l’indice contro Israele. Tuttavia è improbabile il coinvolgimento diretto dei servizi segreti di Tel Aviv nell’attentato di ieri. E non perchè il ministro della difesa Moshe Yaalon si sia affrettato a negare qualsiasi responsabilità del suo Paese nell’esplosione avvenuta a Beirut. Le frontiere sono relativamente calme e a Israele va più che bene così, con i suoi nemici che si ammazzano tra di loro. Chi ha colpito ieri è quasi certamente libanese, legato alle forze che tra Libano e Siria combattono contro Assad. Forze decise a far pagare a Hezbollah e al suo segretario generale Hassan Nasrallah il conto della massiccia partecipazione dei guerriglieri sciiti alla guerra civile siriana in sostegno delle truppe agli ordini di Assad. Immediata è stata la condanna dell’attentato da parte del mondo politico, a cominciare dal presidente Michel Sleiman. Persino il partito “Mustaqbal” dell’ex premier Saad Hariri, rivale accanito di Nasrallah, ha avuto parole dure per gli attentatori.

Ma le parole contano poco in un Paese dove lo Stato è sempre più fragile e lo scontro settario in alcune aree diventa ogni giorno sempre più brutale. Lo dimostra, ad esempio, la ferocia con la quale alla fine di giugno a Sidone lo sceicco sunnita salafita Ahmad al Assir ha lanciato i suoi seguaci armati contro una postazione militare uccidendo una ventina di soldati, ossia altri libanesi colpevoli a suo dire di far parte di un Esercito che non punta le sue armi contro Hezbollah. Anche la rocambolesca  fuga da Sidone di Assir espone la situazione interna di un Paese dove dietro le quinte ogni comunità protegge i «suoi membri» contro la legge dello Stato. Se Assir resta latitante lo deve ai tanti sunniti pronti a nasconderlo incuranti della legge e del sangue libanese che lo sceicco salafita ha fatto scorrere. Così come Hezbollah si lascia sempre di più intrappolare nelle strategie e dai bisogni dei suoi sponsor iraniani e siriani. Senza dimenticare che Tammam Salam, primo ministro incaricato (da mesi), di fatto è stato scelto dall’Arabia saudita. E’ un Libano che appartiene a tutti meno che ai libanesi.