Il Leviatano è un essere e allo stesso tempo una metafora. Esercita il suo fascino sull’immaginario collettivo da secoli ed è nell’Antico Testamento che incontriamo la primigenie di questo mostro marino. Nonostante manchi una descrizione puntuale, l’etimologia del suo nome ce lo fa immaginare con le fattezze di un colossale serpente o di un gigantesco capodoglio, re di tutte le bestie, segno vivente del potere di dio e delle fenomenali «energie» che deve dominare. Alcune interpretazioni bibliche lo affiancano al behemoth e allo ziz, che sarebbero i favolosi omologhi di terra e di aria; ma senza dubbio è la figura del Leviatano ad essere la più suggestiva. Una figura che alternativamente si ritiene mutuata da quella di Tiamat, dea delle acque salate della mitologia babilonese, o dal dio-coccodrillo egizio Sobek.
Musicisti, rocker e cantautori non potevano non farsi sedurre dall’impetuosa e misterica ferocia di questo «essere» dalla forza travolgente che infatti è diventato spesso il centro delle loro elucubrazioni poetiche. I ritratti in musica del Leviatano che abbiamo deciso di attraversare in questo excursus hanno tutte un loro dna preciso, una caratterizzazione simbolica molto forte. E un fascino allo stesso tempo inquietante e portentoso.

LA BESTIA NEL JAZZ
Le prime descrizioni di un Leviatano in musica che vogliamo segnalare sono in realtà strumentali e arrivano tutte sostanzialmente dall’alveo di matrice jazz. Lo prendiamo come una specie di antefatto, come una prefazione che spiega meglio del romanzo, come una poesia muta che descrive in questo modo, col suo silenzio da groppo in gola, l’arrivo del mostro. L’Esbjorn Svensson Trio (o E.S.T. come viene indicato in genere): Esbjorn Svensson al pianoforte, Dan Berglund al basso e Magnus Oström alla batteria. Suoni che si muovono nei gangli delle armonie del pianoforte. Si tratta di una sorta di super trio scandinavo che aveva acceso gli entusiasmi dei jazzisti e degli amanti del rock per la capacità del combo di coniugare le due attitudini e i due mondi. Una convivenza fertile, bruscamente interrotta per la scomparsa di Svensson a causa di un incidente durante un’immersione subacquea nel giugno 2008. Tra le perle sonore del trio anche un brano inserito nell’album Viaticum del 2005. Letter from the Leviathan, una lettera che ha come mittente il mostro marino e che alla luce di quello che è accaduto poi a Svensson sembra quasi una sorta di sinistro, intenso, inquietante annuncio…
Mouse on the Keys è invece un trio di Tokyo che combina il suono di diversi pianoforti e sintetizzatori con la batteria. I loro ritmi hardcore si mescolano abilmente con il jazz, la musica classica contemporanea e brandelli di musica elettronica. È una tattica che praticano fin dal loro esordio, mentre sul terzo album del gruppo, The Flowers of Romance, il trio ha inserito anche un brano dedicato al Leviatano. Leviathan apre in modo roboante, verrebbe quasi da dire forsennato, il tracciato dell’album. Come se gli input lanciati dal brano dell’Esbjorn Svensson Trio che abbiamo appena segnalato, venissero raccolti ancora con più veemenza e con una forza sonora al limite del rumorismo. Un taglio che esplicita bene il riferimento all’essere spaventoso descritto dal titolo.
Più ordinaria, meno eversiva, ma ugualmente fremente e inquieta la partitura del trio del sassofonista Joe Lovano con il contrabbassista John Patitucci e il batterista Antonio Sanchez (che l’ha inserita nel suo disco di «incontri» del 2015, titolato Three Times Three). Leviathan equivale a nove minuti di pulsioni ritmiche e schizzi sassofonistici. Una cavalcata piena di impennate, di brusche frenate e di agguati.

VISIONI ROCK
Il Leviatano è dunque una creatura mostruosa. Un terribile mostro marino dalla leggendaria forza presentato nell’Antico Testamento, dove peraltro non compare mai con questo nome. Un essere nato comunque dal volere di dio. La citazione più importante è nel Libro di Giobbe: «Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Egli è il re su tutte le bestie più superbe». (Giobbe 40:25-32, 41:1-26)
Dal punto di vista allegorico, il Leviatano rappresenta spesso il caos primordiale, la potenza priva di controllo, benché biblicamente sia più spesso espressione della volontà divina e «simbolo della potenza del creatore». È una metafora ripresa anche da Nick Cave nell’album Ghosteen. L’immagine che adotta il musicista australiano ha caratteristiche affini, ma non coincidenti con quelle bibliche: «È vasto e selvaggio e profondo come il mare, e come il sole affonda nell’acqua, io amo il mio bambino e il mio bambino mi ama».
Leviathan è anche una struggente canzone d’amore, che racconta la perdita del figlio di Nick Cave, come una sorta di consegna a un’entità superiore, «selvaggia e profonda» appunto. Una visione panteistica della perdita che evidentemente riesce a dare qualche conforto al suo dolore di padre.
In un brano tratto da Blues Funeral del 2012 lo statunitense Mark Lanegan, già fondatore degli Screaming Trees e membro dei Queens of the Stone Age, usa invece il suo appeal vocale e quello dell’immagine del Leviatano per raccontare i propri demoni… Il magazine Pitchfork definisce la voce di Lanegan «graffiante come una barba non fatta da tre giorni e flessibile come un mocassino di pelle». E se per quel che riguarda il corredo sonoro della canzone dedicata al Leviatano c’è un disegno melodico piuttosto ossessivo, claustrofobico, nel testo ci sono immagini da horror movie: «Il Leviatano attende in acqua. Scheletri si nascondono tra gli alberi. Le ore strisciano come ragni».
Di tipo luddista, almeno se si vuol dar credito alla ficcante messinscena del video ufficiale, il Leviathan (dall’album Heavy is the Head del 2017) degli statunitensi di Cleveland, Tropidelic. Il regista del clip, Adam Thomas, descrive un pifferaio magico che anziché spargere note, sparge bende nere lungo il cammino e attraversa «un ponte molto simile al Leviatano». Finisce per inscenare così una processione di bendati, diretti – si capisce solo negli ultimi frame – verso un complesso industriale, una fabbrica o una catena di montaggio.
Due anni dopo dal nord del Canada, The Northbloods ossia Zac Kay, Dave Oostra, Nelson Horneland e Riley Morrison, rilasciano un ep, Red Mountain, dal piglio decisamente southern-rock. Nella scaletta spicca Leviathan, un brano che parte come un lamento e si impenna fino a ruggire minacciosamente. Parte come un lamento e finisce sempre con un lamento invece, il Leviathan del musicista e songwriter di Los Angeles, Koda. Leviathan è una canzone triste e fatale che fa sembrare ipnotizzante una melodia che sarebbe piaciuta a Thom Yorke (anche il modo di cantarla deve molto al frontman dei Radiohead) e lenisce un profondo mal di cuore descrivendo la bizzarra biografia di un Leviatano metropolitano: «Sulla scia di sigarette dolci e droghe pesanti mi sono perso fluttuando tra la folla. Perso nel vento, silhouette morbida, sono il Leviatano».

UNIVERSO METAL
Era piuttosto prevedibile che un universo come quello del metal e dei suoi numerosissimi affluenti e rivoli stilistici fosse decisamente «stuzzicato» dalla figura minacciosa, imponente, gotica e sopra le righe del Leviatano. Il «sovrano degli abissi» è un invito a nozze per l’immaginario ridondante e agonistico di questo emisfero. Tra i protagonisti del metal classico va sicuramente citato il Leviathan di Ingwee Malmsteen (targato 1992), quello degli australiani Alestorm e degli statunitensi Veio, rispettivamente del 2009 e del 2017.
Ma non è un caso che a raccogliere la sfida di raccontare questo «essere» mitologico siano stati soprattutto i vocioni rauchi del death metal e in genere del metal più estremo, con la loro ossessione belligerante e apocalittica. I Mastodon di Atlanta hanno sviscerato il loro prog metal ad esempio in un concept album interamente dedicato alla figura del Leviatano. I tedeschi Ahab, campioni del funeral doom metal, si sono gingillati in molti brani con le gesta di questo essere infernale. Così hanno fatto anche, sempre con piglio terrorizzante, i londinesi Akercocke, The Noctambulant di Jacksonville (Florida) e i giapponesi Crossfaith, paladini dell’electro-core.
Gli Ursinne, ovverosia la ditta frutto della collaborazione fra due veterani della scena death metal come Jonny Pettersson e Dave Ingram, se ne sono usciti tre anni fa con Swim with the Leviathan, un titolo che sembrava per una volta sfoderare un poco di autoironia in un ambito che soffre di carenza atavica di questa componente. Ingram ha raccontato al proposito: «Un mio amico ha usato una volta l’espressione ‘è tempo di nuotare assieme al Leviatano un’altra volta’. Da quella frase ho iniziato a elaborare alcune idee attorno alla figura del Leviatano. I cinque simboli all’interno del Sigillo di Bafometto parlano del Leviatano, i titoli dei prossimi dischi usano alcuni Nomi Infernali che compaiono all’interno della Bibbia Satanica». Alla faccia dell’autoironia…

LA «BELVA» ITALIANA
Herman Melville in Moby Dick cita più e più volte la figura del Leviatano, incarnandola nel capodoglio, animale che secondo lui, per le sue immense proporzioni e la sua spaventosa potenza, meglio rappresenta questa figura mitologica. In ebraico moderno, la parola «livyatan» significa infatti «balena». È proprio per questo legame melvilliano che nel 2011 Vinicio Capossela ha voluto inserire la «belva marina» nel catalogo di personaggi poetici del suo Marinai, profeti e balene. Il grande Leviatano è un brano ispirato a una canzone di Melville che appare in Moby Dick, nei primi capitoli della storia. Il testo della canzone di Capossela riprende con pochissime varianti la traduzione che ne fece Cesare Pavese: «D’ora innanzi e per sempre dovrà risuonare del grande Leviatano la potenza e la misericordia…».
Un pezzo misterioso, ambivalente nel significato, diviso da una netta cesura di atmosfere, fra una prima parte fosca e una seconda che delinea musicalmente l’irrompere del sole in mezzo al nubifragio. Racconta del ventre della balena, ovvero del fondo della sofferenza psichica. Il coup de théâtre sta nel fatto che il mostro che tiene prigionieri e il liberatore divino si rivelano alla fine la stessa entità. Ecco che cosa svela il Coro degli Apocrifi, cioè «coloro che sanno le cose che devono essere tenute nascoste», nella potente chiusa orchestrale.
Molto più coinciso, ma altrettanto efficace, il Leviatano descritto dal duo grindcore Bologna Violenta: trentanove secondi di cattiveria e un armamentario di distorsioni che si dipana nel tracciato di Discordia, album del 2016.
Tanto forte era la suggestione di questo re delle bestie, che quando Thomas Hobbes, nel 1651, si trova a descrivere la genesi del potere statale come un contratto con cui la società attribuisce il potere di governare a un’entità singola, l’immagine che usa è proprio quella del Leviatano: il potere assoluto, totale, spaventoso, che però sia garanzia di una società stabile e pacifica, risultato della convergenza di innumerevoli persone in un corpo unico. I Mallnàtt in Piramide (2015) sembrano proprio riferirsi all’accezione hobbesiana del Leviatano, con in più una visione pessimistica dei risultati di questa centralizzazione e un riferimento esplicito alle distorsioni mediatiche degli strilloni di regime: «Arrivano i mostri della propaganda, se sai cosa sono, tu sai chi li manda. Pensavate bastasse non votarli? È arrivato il Leviatano».
Il pezzo è tratto da Swinesong, il penultimo album della band folk black metal bolognese (da non confondere con gli omonimi skinhead destrorsi di Milano). Tocca infine ai romani Stormlord tornare al mainstream del mostro mitologico e rivisitarne il carisma in versione epic metal in un brano tratto da Far (2019). As a King it Reings for Million Years cantano in inglese in un profluvio di chitarre, tamburi e tastiere.

TRA BÓDRAN E VIOLINI
Dal metal al folk, anche se le storie del «mostro» nel lasco ambito della musica popolare sembrano ispirare soprattutto quei gruppi che possono regalare (per strumentazione e retaggio stilistico) accenti aggressivi o perlomeno drammatici, o epici, alle loro perlustrazioni sonore. A cominciare dai californiani di San Diego The Dread Crew of Oddwood che in Leviathan (da Rocktopus del 2010) non lasciano che i loro bouzouki e le loro fisarmoniche ci trastullino con ballate sentimentali e parlano senza giri di parole di «una terribile creatura» che «si levò dal cuore nero delle onde/Agitando, bruciando, desiderando di trascinarci nelle nostre tombe». Quattro anni più tardi fanno loro eco gli inglesi Bellowhead con Leviathan/Tombola, una cavalcata strumentale quasi furente, coi violini che si incastrano tra i basso tuba e i bòdran, inserita nella versione deluxe dell’album Revival”. Toni più mesti, o meglio più stranianti, quelli perseguiti da Raury, cantautore, rapper, chitarrista e produttore di Atlanta in Leviathan, un brano del 2019. È un’escursione di quasi cinque minuti in un folk che arde di una passione smorzata e si prende una vacanza dal folk-rap iperprodotto del suo debutto. Chissà se a Raury era arrivata voce di una notizia del 2017 e chissà se questa notizia lo ha ispirato o lo ha spinto a trasfigurarne il senso nella sintassi sonora del suo brano: il Leviatano a quanto pare è esistito realmente. I suoi resti, o quelli di un animale che gli assomiglia un bel po’, sono stati rinvenuti nel deserto del Perù, in sedimenti di 12-13 milioni di anni fa. «Leviathan Melvillei» il nome scientifico che è stato dato a questo animale, un parente alla lontana dell’attuale capodoglio ma era un feroce predatore che afferrava e immobilizzava la preda con i grossi denti e ne stappava le carni a morsi, nello stesso modo dell’attuale orca.

TECNOLOGICO
Quando Bernard Stiegler ne La società automatica (Mimesis) parla di «Leviatano elettronico» si riferisce alla dittatura dell’algoritmo e all’abbandono del diritto di «governare sé stessi». Una prospettiva sempre più realistica cui però noi vogliamo rubare soltanto l’insegna, distogliendola dall’analisi dello studioso francese che aveva peraltro teorizzato un pensiero provocatorio e affascinante: «La tecnologia è il cuore del filosofo».
Dunque, in chiusura, attacchiamo, non solo metaforicamente, la spina e cerchiamo gli ultimi esempi di declinazione sonora del Leviatano in alcune scene del frastagliato mondo della musica elettronica. Si tratterà come vedremo di una sorta di veloce discesa agli inferi, perché il tono emozionale e il mood ritmico dei brani parte bello spedito con il Leviathan quasi tamarro del trio norvegese di Trondheim Ultra Sheriff (tastierone e cassa in quattro per un brano di electro-prog ridondante), si attenua leggermente con la festa dark del producer francese Flavien Berger che al mitico mostro marino dedica nel 2015 non solo un brano ma un intero concept album, per poi allentare sempre più decisamente negli ultimi tre esempi che vogliamo segnalare. Il californiano di Berkeley Thriftworks, nome d’arte di Jake Atlas, cucina nel 2014 un Leviathan’s Joint che si muove tra psichedelia, dubstep e hip hop strumentale. Bpm molto bassi e scariche elettrificate che diventano inquiete sciabolate nel Leviathan Aftermath di Jamie Paton, licenziato l’anno scorso dal producer di South London e piazzato in chiusura di un ep di quattro brani, Disk Memories. Il processo di regressione diventa sempre più inquietante se si ascoltano le Leviathan Leaps degli irlandesi Ainm e del loro album post trip targato 2010: i droni borbottanti, le sibilanti sirene, i piccoli tonfi e i vortici finali che caratterizzano il brano non sembrano infatti frutto di un lavoro tecnologico o di un qualsiasi montaggio digitale. Assomigliano piuttosto a una sorta di field recording. Come se un novello professor Lidenbrock, o uno dei suoi avventurosi colleghi nel Viaggio al centro della terra, avesse deciso di scendere in una grotta sotterranea con un piccolo registratore digitale e si fosse ritrovato alle prese col respiro di quello che lo stesso Verne definisce «un mostro delle specie perdute, che si agita sotto il profondo strato delle acque».