A vent’anni ormai dalla fine di un regime diventato icona universale del razzismo in tutte le sue vesti, è ancora un vecchio uomo far parlare di sé. Non importa se dal suo letto di morte e non più in grado di battere parola. Più che retorico è quasi surreale sentir parlare di Nelson Mandela, un leader, il combattente, l’uomo. In un’intervista alla tv di stato è la figlia Makaziwe Mandela a usare parole insolite che suonano quasi apocalittiche in un Sudafrica allo sbando e alla ricerca di una nuova identità a distanza di pochi mesi dalle elezioni presidenziali. «Tata è molto forte, è molto coraggioso sebbene sia, in mancanza di parole migliori, nel suo letto di morte da dove riesce ancora a darci lezioni di pazienza, amore e tolleranza». Dimesso a settembre scorso dal Mediclinic Heart Hospital di Pretoria dopo una degenza di circa tre mesi per un acuirsi di un’infezione polmonare cronica, Mandela riceve cure mediche da un team medico specializzato nella sua casa di Johannesburg adibita a reparto di terapia intensiva.

Da allora sono passati circa tre mesi di silenzio che hanno come anestesizzato le paure e l’onda empatica che sotto i riflettori mediatici mondiali avevano come voluto quasi accompagnarlo verso una sua finale dipartita o tentato di esorcizzare l’ultimo saluto. In un vortice di reazioni contrastanti: di dolore, di preoccupazione e anche di indifferenza.

Per molti sudafricani e immigrati africani incontrati per strada, Madiba non c’è più ormai da un po’. E come in quelle storie da vecchi Paesi comunisti, le autorità aspetterebbero il momento “giusto” per esporre i suoi resti.

Leggende metropolitane a parte, non è poi così surreale invece supporre che un film “muto” su Madiba farà da sfondo ai prossimi mesi di campagna elettorale mentre il film «Long Walk to Freedom» è già diventato campione d’incassi nelle sale sudafricane.