«Riprenditi la tua libertà dai cani terroristi, coopera con le forze della coalizione, così che possano uccidere il tuo nemico ed eliminarlo». Recita così il volantino della propaganda statunitense lanciato alcune settimane fa dal cielo nella provincia di Parwan, pochi chilometri a nord di Kabul. A corredo, un’immagine: un leone che insegue un cane. Un cane bianco, come la bandiera dei talebani. Sul suo corpo, come sulla bandiera dei turbanti neri, una scritta. La più importante per i fedeli musulmani: la shahada, la testimonianza di fede.

GLI STRATEGHI delle operazioni psicologiche dell’esercito americano miravano a screditare i talebani. Ma associando quel versetto del Corano al corpo di un cane, animale impuro, hanno scatenato un putiferio. Proteste, manifestazioni, interrogazioni parlamentari. Insomma, un bel pasticcio. Su cui gli americani hanno cercato di mettere una toppa.

«Il disegno del volantino conteneva erroneamente un’immagine altamente offensiva sia per i musulmani sia per la religione islamica», ha dichiarato, scusandosi, il generale statunitense James Linder in un comunicato, aggiungendo il solito ritornello: un’inchiesta stabilirà «la causa di questo incidente e i responsabili dell’accaduto». Le scuse non sono bastate. L’errore è clamoroso.

L’OFFESA, difficile da dimenticare. Per il governatore della provincia di Parwan, Mohammad Hasen, è «imperdonabile», e i responsabili «vanno processati e puniti», ha tuonato. Lo stesso hanno chiesto le centinaia di manifestanti scesi per le strade di Kabul e in altre città, nei giorni successivi alla diffusione della notizia del manifesto-offesa. Qualcuno issava proprio la bandiera talebana, secondo i resoconti della rete Tolonews.

LA PROPAGANDA a stelle e strisce mirava a indebolire i talebani presentandoli come ipocriti, sostenitori di un Islam alieno rispetto alla tradizione afghana. Ma a trarne il vantaggio maggiore sono stati proprio gli studenti coranici, che hanno capitalizzato il passo falso degli strateghi Usa. Quel volantino, dicono i barbuti, dimostrerebbe ancora una volta «che stiamo combattendo una guerra tra l’Islam e gli infedeli». Quegli infedeli che minacciano l’integrità della nazione afghana e la stessa fede islamica.

Non ci si può fidare degli americani, ripetono i seguaci del maulana Haibatullah Akhundzada, l’uomo che cerca di tenere insieme le diverse anime dei turbanti neri. Troppo diversi dagli afghani, quegli americani arroganti e imperialisti, nemici dell’Islam.

Eppure l’esercito americano sa da tempo che una delle cause dell’insuccesso sul terreno è l’incompatibilità culturale, l’ignoranza, la difficoltà a comprendere un contesto sociale e culturale (dinamico e articolato) come quello del Paese centro-asiatico. Già all’inizio del 2011, preoccupati dall’aumento dei casi di «fuoco amico», alcuni generali hanno commissionato una dettagliata ricerca sugli «omicidi fratricidi» al N2KL Red Team, il gruppo di esperti e scienziati che si occupa di psicologia e operazioni militari.

NEL MAGGIO 2011 ne è uscito un rapporto dettagliato, A Crisis of Trust and Cultural Incompatibility. Gli autori avvertivano allarmati che gli «omicidi fratricidi» – in cui un soldato afghano ne uccide uno delle forze della coalizione – non sono casi isolati, ma «un vero e proprio rischio sistemico». Dovuto alla crescente distanza tra i soldati afghani e i loro omologhi occidentali, percepiti come arroganti e insensibili.

Quello che vale per i soldati, vale per la società afghana nel suo complesso: le truppe d’occupazione vengono sempre meno tollerate. Sempre più biasimati i loro comportamenti. Alcuni dei quali mortali.

DAI CIELI AFGHANI non piovono infatti solo volantini. La nuova strategia americana, fumosa e incerta, una sicurezza l’ha data: più bombe, più omicidi mirati, miglior utilizzo dell’arma aerea e un maggior impegno – con l’aiuto dei partner Nato – per costruire una forza aerea nazionale con più aerei e piloti meglio addestrati.

NON È UNA NOVITÀ perché è la stessa politica di Obama (meno soldati più bombe) ma con almeno tre differenze: la prima è che l’impegno di «stivali sul terreno» aumenterà: per ora siamo a oltre 15mila soldati, e lunedì il segretario alla Difesa Usa Mattis ha confermato che altri 3mila sono in partenza.

La seconda è che l’Afghanistan può essere un buon teatro dove testare nuove armi (come quella da 11 tonnellate sganciata nell’aprile scorso nella provincia orientale di Nangarhar).

La terza è che sono tornati i B-52, le «fortezze volanti» rese note dalla guerra nel Vietnam. Già utilizzati in passato, non erano stati più usati a partire dal 2005 ma sono riapparsi nel 2012 quando giunsero a sganciare sino a 600 bombe nel mese di agosto di quell’anno. Poi c’è stato un nuovo arresto e ora sono ricomparsi con una media di 150 bombe al mese: ad agosto 2017 hanno superato quota 500.

I B-52, gli stessi da cui sarebbero stati sganciati i volantini, portano normalmente bombe da 220 chili (Gbu-38/B) fino a una tonnellata (Gbu-31/B). Ogni aereo ne può portare sino a una trentina per un totale di 31 tonnellate. Il totale delle bombe sganciate nel 2017 è a oggi 2.487, più della metà di quelle lanciate in tutto il 2012 ma solo 271 in meno che in tutto il 2013 e quasi il doppio di quelle del 2016.

I B-52 sono coadiuvati da caccia F-16 e droni MQ-9 per un totale di 761 missioni armate (su 2.861 uscite) nel 2017.

SUL FRONTE INTERNO – spiega l’Air Power Summary americano del 31 agosto – «l’Afghan Air Force ha espanso la sua capacità aerea con la prima operazione di sganciamento notturno il 22 agosto con propri C-208». Train Advise Assist, come vuole l’imperativo della missione Nato «Sostegno risoluto». Ossia insegnare a bombardare meglio in un Paese dove nei primi mesi del 2017, guarda caso, l’Onu ha segnalato un aumento del 43% negli incidenti dovuti ai raid aerei.