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Sono pagine densissime quelle dedicate da Roberta Mazzanti alle due scritture autobiografiche che compongono Sotto la pelle dell’orsa (iacobellieditore, collana I Leggendari, pp. 65, euro 8). La prima, da cui il piccolo libro prende il titolo e precedentemente pubblicata nella rivista Lo Straniero (2014), si concentra sulla bellezza; la seconda è un’interrogazione intorno alla relazione con la propria madre. Mazzanti ci consegna parole in cui il corpo è complesso apprendistato che dall’infanzia fa emergere nell’età adulta, attraversando un divenire-donna insieme alla mobilità di affetti e politica che ne accompagnano il tragitto.

La narrazione offerta, in sintonia con il memoir, si srotola nella rappresentazione di vertigini trasformative, dapprima indistinte durante gli anni dell’adolescenza e che sostanzialmente spalancano alla libertà femminile senza tacere delle ferite per arrivarci. I bordi della «figuretta» che Mazzanti porta alla luce sono infatti frastagliati di una vulnerabilità che viene riconosciuta eminentemente a se stessa e alla relazione con la propria madre, esito amoroso e doppio, dimora umbratile che l’autrice maneggia come un flusso di coscienza perfettamente sorvegliato e privo di sbavature.

Il senso di questo suo ultimo lavoro è il compimento di un cerchio di significazioni i cui perimetri cominciano a manifestarsi nel suo La gente sottile, interno al volume collettivo Baby Boomers. Vite parallele dagli anni Cinquanta ai cinquant’anni (Giunti, 2003), curato da Rosi Braidotti, Serena Sapegno, Annamaria Tagliavini e dalla stessa Roberta Mazzanti. Sfuggendo le ovvietà, l’autrice già segnalava quanto il corpo potesse apparire mutevole crocevia di forze spesso contrarie, insidiato da tentazioni tese a «rompere il cancello della carne». Di come cioè anche lei abbia fatto parte di quella gente sottile senza la possibilità di uscire per anni dall’incantesimo per esorcizzare la morte, a tratti esiziale.

Il tema dell’anoressia non è solo l’ostinazione privativa all’appagamento, è bensì conflitto nella consapevolezza che interrogarsi sul desiderio e la sua mancanza corrisponda al varcare una soglia per appropriarsi di un corpo più profondo, un’esperienza paradossale di sé. Ecco in che senso il dono effimero della bellezza, individualmente ereditato spesso nostro malgrado, si inchioda per Mazzanti a un’intelaiatura divoratrice che se non viene decostruita attacca con furia fino a confondere le fondamenta di ciascuna: «Siamo tutte coinvolte nei dilemmi della saturazione, che non è affatto ricchezza ma “troppo-pieno”, offerta che precede il desiderio e cerca di incanalarlo nel consumo. Anche quando la povertà si è insinuata, quando dilaga inaspettata e disconnette le impalcature del baraccone, la tentazione offerta è la cianfrusaglia a basso costo, il tanto-e-cattivo». Che cosa rimane di quel troppo-pieno? Chi e cosa è quel resto indigeribile che si mostra senza pietà alcuna? È un enigma, un gioco ipocrita che rilancia d’azzardo sui corpi oppure è la risorsa grande su cui lavorare?

L’autrice risponde al quesito percorrendo la propria esperienza tra gli anni sessanta e settanta, riconoscendosi parzialità, smontando l’onnipotenza e illuminando l’ambivalente oscillare tra pudore e compiacimento per accedere alla relazione con la donna che l’ha messa al mondo. Grazie anche al femminismo, all’autocoscienza e alla relazione tra donne; grazie agli scambi dolorosi dell’accudimento che passavano per una fisionomia, materiale e interiore, tutta da inventare e indovinare. Tra passi incerti, tutt’altro che metaforicamente, è avanzata lentamente nel paiolo bucato del suo desiderio, ha intrapreso un dialogo immaginario con la propria madre, ha seminato le parole «come briciole» ed è arrivata al nocciolo inaggirabile: «Tuttora, il discorso con lei è il centro di un sommovimento perenne, a volte leggero come un tremito nei gesti e nelle voci, altre volte devastante come un terremoto, e pauroso. Mai interrotto anche quando ho ripreso a camminare più salda; sempre arricchito, uno strumento ben custodito per confrontare ogni altra mia relazione con le donne; mai, tuttavia, esplicitato con lei, sebbene la nostra compresenza nella vita sia sempre rimasta intensa».

La sfida di questo potente librino non è allora quella della confessione fuori tempo massimo, è invece l’appropriazione lungo il corso delle età, di un dolore sordo che a un certo punto diventa parlante e che ad ascoltarlo con cura e con la gratitudine di una figlia, assume parole sempre nuove che orientano. Anche per l’ombra che non assedia mai del tutto se al fondo c’è un sapere dell’amore: «il doppio sguardo è quello che mi sarebbe piaciuto offrirle quando era più giovane, che tuttora le propongo. Per questo, ho scritto di lei, e di noi».