Il festival ha ritrovato il sole, ma il clima in piazza Grande è ancora piuttosto pesante grazie alla proiezione di Hinterland dell’austriaco Stefan Ruzowitzky, che qualche anno fa si era aggiudicato un Oscar come miglior film straniero per Il falsario Operazione Bernhard, vicenda poco nota sul tentativo nazista di precettare tipografi e falsari dai campi di concentramento per fargli creare dollari e sterline falsi. Qui la storia risale invece al 1920, quando un gruppo di prigionieri, reduci dell’esercito imperiale, ritorna finalmente a Vienna. La città non è più la stessa, come mostrato dalla scenografia urbana che pesca nell’immaginario di Christopher Nolan, nelle opere di Hundertwasser e nei videogames, per restituire palazzi sghembi, storti, dagli equilibri improbabili.

MA QUESTO È IL MENO, perché l’Austria da potente impero è ridotta a una insignificante piccola repubblica. E soprattutto la sconfitta ha operato sulla zucca degli abitanti al punto che tutto sembra stia per esplodere, mentre comincia a serpeggiare qualche svastica. Preso in questa situazione devastante, dopo che la sua ricca famiglia ha perso una fortuna in buoni di guerra, Perg, ex ispettore di polizia non si dà pace, un po’ come per i reduci del grande schermo (e anche della realtà) di guerre più recenti. Corpi mutilati, degrado, povertà, depravazione e omicidi rituali che colpiscono i reduci. Raccontati puntando molto sull’aspetto visivo Ruzowitzky rischia di farsi sopraffare da questa dimensione visionaria, affastella una quantità colossale di temi e di sottostorie al punto da rendere un po’ indigesto il suo polpettone pacifista e ridondante. Il regista dice che il soggetto del suo film è «la mascolinità tossica» dovuta a un malinteso senso del dovere, alla vergogna e alla rabbia per la sconfitta che scatenano un’aggressività cieca.

NEI CINEASTI del presente invece un’incursione italiana: Il legionario di Hleb Papou, regista di origine bielorussa (intervistato su Alias del 31 luglio scorso) da tempo residente in Italia e frequentatore del Centro Sperimentale. Qualche anno fa aveva realizzato un corto dallo stesso titolo e sullo stesso tema, due fratelli italiani di origine camerunense, uno celerino, l’altro leader del comitato di una casa occupata da anni sotto minaccia di sgombero. Ora quella storia è diventata un film, grazie alla sceneggiatura scritta con Giuseppe Brigante e Emanuele Mochi.

Il tentativo è coraggioso, seppure senza grandi risorse produttive, nel suo modo di affrontare alcune trasformazioni italiane, sulle contraddizioni che attanagliano il paese, dove può succedere che simpatie leghiste allignino dove mai uno potrebbe aspettarselo, dove all’interno della celere le simpatie destrorse siano prevalenti, come sempre, ma dove anche gli occupanti del palazzo possono sfoderare un ventaglio di comportamenti e pregiudizi che ormai si annidano ovunque. Quel che ne esce è un ritratto eccentrico e inconsueto che forse solo un italiano-straniero poteva scovare, cercando di rimanere più vicino al cinema di genere piuttosto che alle tragedie della miseria.