I 28 paesi che fino a domenica andranno alle urne per le elezioni europee, a 40 anni dal primo voto a suffragio universale dell’Europarlamento, sembrano guardare ognuno il proprio ombelico. Il voto potrebbe così essere un’addizione di scrutini particolari. Eppure l’Europa esiste e non è solo la somma dei suoi stati. Questa tesi è sviluppata nel libro appena uscito di Sylvain Kahn e Jacques Lévy, Le Pays des européens (Odile Jacob, 220 pag. 19,90€). Un bel titolo trovato da uno storico e da un geografo francesi che ci parlano di Europa a partire dallo spazio, dalla dimensione geografica del mondo sociale. Il geografo Jacques Lévy, professore all’Ecole Polytecnique fédérale di Losanna e all’università di Reims, spiega perché l’Europa è già «un paese», anche se i suoi cittadini tardano a rendersene conto.

L’Europa è un paese?

È vero: tra tutti i paesi europei l’Europa è il più vecchio. Ha caratteristiche proprie, è qualcosa che si è costruito nei secoli, con una pluralità sociale, una pluralità culturale, un’autonomia sociale rispetto agli stati, è la possibilità del dibattito sui valori, la presenza di avanguardie culturali. Il sistema propriamente europeo si è realizzato prima degli stati. Per questo nel libro invitiamo a rivedere la cronologia: non sono esistiti prima gli stati e poi l’Europa, nata da una loro collaborazione. Con la pace di Westfalia nel 1648 gli stati si autoproclamano come protagonisti unici dello spazio europeo, ma questo era già falso allora e lo è restato dopo. Nel periodo che va fino al XIX-XX secolo gli stati concentrano nelle loro mani una tale potenza da schiacciare la società. Ma dopo il 1945 il pendolo si è riequilibrato, con un migliore equilibrio tra reti e territori. La storia d’Europa può essere collegata a questo tentativo di schiacciare le reti da parte dei territori degli stati. L’Europa è da molto tempo il paese degli europei.

Anche se il voto e la campagna sono nazionali e ci sono molte questioni nazionali in ballo, mai si è parlato tanto di Europa. È una svolta, a 40 anni dal primo voto europeo?

Quando si guardano i sondaggi dell’Eurobarometro, vediamo che il legame degli europei con l’Ue è sottovalutato. Gli europei sono molto legati alla Ue, anche se ci sono eccezioni, come l’Italia in questo periodo. Ma, sia all’ovest che all’est, c’è per la prima volta una maggioranza che dice: il mio voto conta. La cittadinanza europea progredisce, la visione della Ue come di una tecnocrazia sta indietreggiando. La gente aspetta sempre più delle misure di carattere istituzionale, una presenza nei campi che sono al cuore degli stati, come la moneta o la difesa. Certo, il paesaggio è contraddittorio, i nazionalismi sono in crescita, ma al tempo stesso molti accettano l’articolazione tra livello nazionale, locale, regionale, europeo. Questo spiega la difficoltà che stanno incontrando i partiti nazionalisti ad avere programmi di vera distruzione dell’Unione europea.

Lei è ottimista rispetto alla crescita dei nazionalismi?

Sono moderatamente ottimista e anche moderatamente pessimista. Prendiamo il caso della Francia, che è emblematico. Le questioni europee sono diventate questioni nazionali, cioè non è più solo il contrario, quando i politici facevano finta di parlare di Europa, ma poi la gente pensava che tutto venisse regolato a livello nazionale. Nella storia politica francese le questioni europee sono diventate in pieno un conflitto centrale nella vita politica interna. Con altre modalità, sta succedendo anche in Italia. In Gran Bretagna ancora di più, è la vera questione. E non c’è stato il temuto effetto-domino dopo il voto a favore della Brexit, che paradossalmente ha piuttosto rafforzato l’adesione alla Ue, visto lo spettacolo sociale britannico gli altri hanno preso coscienza di cosa c’era da perdere. È dal 2012-13 che nei sondaggi si vede crescere la fiducia nella Ue. Importante è stato il ruolo di Mario Draghi, che ha impedito la deflazione. I cittadini europei non sono poi così ignoranti: sanno benissimo quali sono i vantaggi dell’euro, che permette di essere indifferenti al tasso di cambio, come il dollaro, mentre prima la gente si ricorda gli effetti delle svalutazioni.

Le carte geografiche che Europa raccontano?

Prendiamo Trieste, all’apogeo quando era città italiana nell’impero austro-ungarico, o Danzica, città tedesca appartenente allo stato polacco: non è un sogno immaginare l’equilibrio tra reti e territori, armonioso e pacifico, profittevole per tutti.

Nel libro c’è un capitolo dedicato alla Russia. Che ruolo svolge?

La Russia aiuta a capire cosa c’è in gioco per la Ue: l’Unione europea è obbligata ad affermare la propria sovranità. Finora questo è rimasto un po’ tra parentesi, perché la Ue non era abbastanza minacciata. Io ho vissuto per anni in Svizzera e vedo come questo paese abbia maggiori difficoltà a continuare nel ruolo che si era attribuito nel XIX-XX secolo, per agire negli interstizi tra le grandi potenze vicine. Il referendum sulla limitazione delle armi da fuoco è stato imposto dalla Ue, e l’alleanza tra tradizionalisti e nazionalisti è stata sconfitta. Trump, che indietreggia sulla Nato, non vuole però la creazione di un esercito europeo. Siamo in un momento-cerniera, altri obbligano a definire gli interessi europei. E questi interessi creano un consenso tra i cittadini che va al di là dell’opposizione tra pro e anti-europei. Di qui le contraddizioni in cui si avvitano i vari Marine Le Pen o Matteo Salvini, su frontiere e migranti, tra nazione e Ue.