Inanellando un errore dopo l’altro, il Pd è finito in un labirinto costruito da se stesso e dal quale non sa più come uscire. Ammesso che una via d’uscita esista.

ùLa trovata di Renzi – alleanza con Beppe Grillo per varare di corsa una legge elettorale basata sul trasferimento al Senato delle norme per l’elezione della Camera sopravvissute alla Consulta – è già andata a sbattere, e non contro un solo ostacolo ma contro almeno tre. L’asse con Grillo è franato sul nodo centrale dei capilista bloccati. Al Senato la legge Renzi-Grillo si troverebbe contro una minoranza Pd non più impaurita dal ricatto e tutti i centristi: di fatto mezza maggioranza. Insistere renderebbe inevitabile la scissione.

La via d’uscita inventata da Dario Franceschini – invertire la rotta, allearsi con Silvio Berlusconi e i centristi invece che con Grillo e sostituire il premio di lista con quello di coalizione – è altrettanto votata al fallimento. Dal momento che nessun accordo con Berlusconi è possibile senza blindare i capilista bloccati, si troverebbe comunque contro al Senato la minoranza Pd, le ampie aree centriste che non rispondono più al comando di Angelino Alfano e il Movimento 5 Stelle. Uno scontro frontale sui capilista invece di frenare la scissione la incentiverebbe. E comunque, quando anche la legge fosse approvata, non risolverebbe affatto il problema della governabilità.

Una coalizione formata da Pd-Ncd e (forse) Giuliano Pisapia prenderebbe probabilmente meno voti di una lista del solo Pd e dopo le elezioni dovrebbe comunque allearsi con Berlusconi. Né si può immaginare di risolvere il problema con una coalizione Pd-Fi-Ncd prima del voto, la medesima essendo appunto «inimmaginabile». Almeno per gli elettori.

Neppure l’idea messa in campo dal solito Renzi per evitare la scissione – primarie al posto del congresso con disponibilità (forse) a sacrificare la propria candidatura – sembra avere chances di successo. Le primarie sono precisamente lo strumento adeguato alla visione di Renzi, tutta centrata sulla personalità del leader e sull’efficacia della propaganda. Non servono a nulla invece quando si tratta di ridiscutere da cima a fondo un modello di partito e una linea politica dimostratesi fallimentari, e che Renzi non sembra avere alcuna intenzione di cambiare. Anche in questo caso ammesso che ne sia capace.

La convocazione del congresso è oggi il solo modo certo per evitare la scissione. Neppure questa però è una scelta facile. Impossibile infatti coniugare congresso ed elezioni a giugno, anche se al momento l’intero Pd e non solo l’area renziana sono consapevoli di quanto sia pericoloso arrivare al voto dopo la prossima legge di bilancio. La durissima reazione dell’Europa alla lettera del governo sulla manovra correttiva non ha solo costretto il ministro Pier Carlo Padoan a una repentina e ingloriosa retromarcia. Ha anche svelato a tutto il Pd quanto saranno ostici i prossimi passaggi economici, cancellando ogni illusione. Però tenere insieme l’esigenza di affrontare le urne prima della manovra del prossimo autunno e quella di evitare la scissione convocando il congresso non sono compatibili.

Arrivano così al pettine i nodi intrecciatisi in tre anni di renzismo mai contrastato adeguatamente da una minoranza che si è lasciata troppo a lungo ricattare e culminati nella scelta suicida di non reagire allo sfacelo del referendum con una puntuale e soprattutto coraggiosa revisione della propria politica.

Finché non si deciderà a farlo, correndo i necessari rischi e accettando di pagare prezzi anche salati, per tutte le anime del Partito democratico non ci sarà altra possibilità che continuare a dibattersi nel labirinto.