Almeno 6.751 in dieci anni, 675 all’anno, 56 al mese, 1,9 al giorno. Sono i numeri delle morti bianche in Qatar dal 2011 al 2020, da quando Doha ottenne dalla Fifa i mondiali di calcio del 2022. Sono lavoratori migranti, per lo più dal sud est asiatico (India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Sri Lanka, Filippine), ma anche dal Kenya, reclutati in massa per costruire sette stadi, un aeroporto, una città e le infrastrutture necessarie in un paese in cui l’estate le temperature arrivano a 45 gradi, spesso li superano.

I dati sulle vittime del lavoro nel ricchissimo emirato li ha raccolti e pubblicati ieri il Guardian (lo aveva già fatto in passato), sulla base dei numeri forniti dai paesi di origine: i governi di India, Bangladesh, Nepal e Sri Lanka hanno calcolato 5.927 morti, il Pakistan da solo altre 824. Mancano i dati di Kenya e Filippine, un «buco» che fa immaginare un bilancio ancora più terribile.

Ai quasi due morti nei cantieri ogni giorno la monarchia reagisce con aplomb: il loro numero è proporzionale al totale della forza lavoro, commentarono in passato le autorità. Come fosse normale. Si muore di caldo, perché il lavoro prosegue senza interruzioni per dieci ore al giorno anche nei mesi estivi (con paghe che non cambiano e restano molto sotto la media dei cittadini qatarioti): nel 70% dei casi sono decessi per infarto o crisi respiratoria, dicono i referti, dunque «cause naturali». Ma, scrive il Guardian, ci sono anche casi di cadute dall’alto e di asfissia.

Nell’ottobre 2019 il quotidiano britannico aveva pubblicato un rapporto simile. In quell’occasione le autorità dell’emirato si erano difese affermando di aver introdotto protezioni per i lavoratori, tra cui vestiti adatti e la sospensione del lavoro sotto il sole tra le 11.30 e le 15 da metà giugno ad agosto. Non basta: gli esperti ritengono pericoloso per il sistema cardiovascolare lavorare nelle ore centrali del giorno all’aperto in Qatar almeno fino a ottobre. Improponibile parlare di «morti naturali» per persone di 25, 35 anni.

All’epoca, nel 2019, il Guardian riportò la ricerca del Cardiology Journal, secondo cui il 22% delle morti di nepalesi in Qatar nei mesi invernali era attribuibile a infarto, percentuale che saliva al 58% d’estate: «Dalle nostre ricerche – diceva il dottor Atar dell’Università di Oslo – è chiaro che i lavoratori vengono reclutati sulla base delle loro condizioni di salute. Ma i loro corpi giovani non riescono a sopportare il caldo a cui sono esposti». Un esercito di persone, quasi due milioni arrivate per costruire, letteralmente, i mondiali del 2022.

Da anni il Qatar è nel mirino delle organizzazioni internazionali per diritti umani che registrano le innumerevoli violazioni, dalle condizioni e gli orari di lavoro alle paghe, fino al sistema della kafala, finalmente abolito nel settembre 2020 sotto una pioggia di pressioni che i mondiali hanno moltiplicato.

La richiesta di riforme della legislazione del lavoro si è concretizzata con la decisione di cancellare un sistema di reclutamento dei lavoratori migranti in vigore in tutto il Golfo: sotto la kafala, il datore di lavoro «sponsorizza» il migrante per permetterne l’ingresso del paese e de iure ne diviene il proprietario. Confisca il passaporto impedendo al dipendente di lasciare il posto a favore di un impiego migliore o addirittura il ritorno a casa.

Una forma di semi schiavitù a cui si aggiungono, de facto, abusi anche fisici oltre che violazione dei diritti basilari. Con la sua cancellazione e la previsione di un salario minimo, il Qatar ha ricevuto il plauso internazionale, sebbene nella pratica poco sia cambiato in termini di stipendi reali e di libertà.

Moltissimi restano intrappolati in ritardi nei pagamenti, mancanza di libertà di movimento, sistemazione in alloggi sovraffollati privi delle condizioni minime di igiene e scarso accesso alla giustizia nel caso di violazioni del datore di lavoro. E in pene severe se lasciano il lavoro e non ne trovano un altro prima che scada il permesso di soggiorno, previsione che li rende ancora ricattabili.