I sostenitori del “no” al prossimo referendum del 17 aprile si fanno nobili difensori dei posti di lavoro. Costoro danno a intendere che, in caso di vittoria del “sì”, verrebbe aperta una pratica di licenziamenti di massa, destinata a gettare sul lastrico migliaia di famiglie. Ora, a parte i reali esiti referendari, mirati a porre un termine definito allo sfruttamento dei nostri mari, e non certo a mettere in atto le regole di libertà di licenziamento introdotte dal governo Renzi con il Jobs act… Occorre entrare nel merito dell’obiezione, sia in termini specifici che generali. Già su questo giornale il 10 aprile, lo ha spiegato Davide Bubbico – che non scrive per sentito dire, avendo dedicato al tema un ponderoso volume.

Nel libro L’economia del petrolio e il lavoro, Ediesse 2016) ha messo in evidenza come l’industria degli idrocarburi sia una tipica economia capital intensive, caratterizzata cioè da grandi investimenti in capitale fisso (macchinari e strutture), ma con ridotte ricadute sull’occupazione. Dopo decenni di sfruttamento dei territori della Basilicata oggi si possono contare poche migliaia di occupati, comprese le figure dell’indotto. Naturalmente non si vogliono sottovalutare neppure questi esiti ridotti sull’economia della regione, che andrebbero tuttavia comparati con l’ampiezza dei territori occupati dall’Eni, con le risorse locali consumate, con il vasto impatto ambientale e con gli esiti sulla salute dei cittadini, che si potrà misurare solo nel lungo termine.

Ma quello che appare oggi intollerabile è il motivo della “difesa del posto del lavoro” qualunque sia l’attività produttiva che rende possibile l’occupazione. E questo è un punto su cui occorre soffermarsi. La disoccupazione di massa dei nostri anni, non è solo un dato strutturale del modello di accumulazione capitalistica dominante. È ormai diventata una pratica di controllo sociale, che produce senso comune diffuso. Agli occhi di una massa crescente di uomini e donne disperati, chi investe in attività produttive appare come un benefattore. Lo sfruttamento del lavoro altrui e i profitti che ne conseguono scompaiono. Allo stesso modo, chi è già occupato non può lamentarsi dei ritmi di lavoro cui è sottoposto, dei turni, degli straordinari necessari per arrotondare, della sua penosa fatica quotidiana. Deve considerarsi fortunato, perché è al sicuro, mentre fuori dalla sua fabbrica o dal suo ufficio infuria la tempesta.

Ma la scarsità di lavoro, diventata una convenienza strategica per il capitale, non è solo una immensa fonte di nuova legittimazione del suo dominio, è anche l’origine di un progressivo arretramento della nostra civiltà. Siamo al punto che ormai esaltiamo senza nessun pudore i nostri successi industriali anche quando sono finalizzati alla guerra, a portare morte e distruzioni presso altri popoli. Finmeccannica firma un maxicontratto per la fornitura di 28 Eurofighter Typhoon al Kuwait, titolava trionfante Il Sole 24 ore il 4 aprile e ripetevano con pari giubilo gli altri grandi quotidiani nazionali. Ma l’inglese dei termini usati non può cambiare la natura criminale dei prodotti. Fighter significa combattente, e quell’euro che lo precede serve solo a camuffare e nobilitare il termine, quasi si trattasse di un computer di nuova generazione, mentre è invece un aereo, un aereo Typhoon, cioè uragano, che genera una tempesta di morte. Plaudiamo a Finmeccanica che crea occupazione costruendo aerei da combattimento, destinati ad alimentare le guerre che infuriano in Medio Oriente?

Certo, lo sfruttamento del mare non è paragonabile all’industria degli armamenti. Sono due cose molto distanti tra loro. In un caso – ma solo quale esito indiretto o incidentale – si uccidono pesci e si distrugge l’habitat marino, e per lo meno si produce petrolio, nell’altro si producono armi per uccidere espressamente uomini e donne. Ma chi difende le ragioni del no a tutela dei posti di lavoro deve essere portato a riflettere su un altro aspetto. La convenienza a sfruttare le vecchie economie comporta un rallentamento degli investimenti nelle nuove. E questo è storicamente provato. Quando nel 1972, il Club di Roma pubblicò il Rapporto sui limiti dello sviluppo, circolato poi in piena crisi petrolifera, si aprì una vasta discussione sulla ricerca di energie alternative. Un dibattito destinato ben presto a esaurirsi quando si scopri che di petrolio ce n’era ancora tanto, nella pancia della Terra, insieme a veri e propri oceani di gas. E per i decenni successivi gli investimenti di ricerca, nel solare e nell’eolico, divennero diletti per hobbisti solitari. Quanti investimenti ci ha fatto perdere lo sfruttamento degli idrocarburi? Quanto gas serra avremmo potuto risparmiare?

Ma c’è un’altra ragione ancora più importante da considerare. Già in passato nel nostro paese è stato commesso un grave errore di strategia industriale. Quando, tramite gli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, si occuparono tanti siti costieri del nostro Sud, da Brindisi fino a Priolo, venne adottata una politica non dissimile da quella dell’Eni in Basilicata. Grandi strutture industriali calate dall’alto, che non generarono nuove economie, non stimolarono una ulteriore crescita del territorio, perché estranee ad esso, alla sua storia, alle sue vocazioni, ai saperi delle genti che lo abitano. Anche allora territori di altissima qualità (mica i deserti dell’Arabia Saudita) furono letteralmente “svenduti” all’industria, in gran parte pubblica. Si trattava e si tratta di industrie che potremmo definire nature intensive, che consumano risorse naturali (immense quantità d’acqua) inquinando suoli, strati aerei, fondali marini. Ma almeno allora, nell’errore, quegli interventi erano interni a un progetto generale di sviluppo del nostro Mezzogiorno.

Si pensava di generare posti di lavoro investendo in attività industriali che peraltro non si esaurivano nell’insediamento dei petrolchimici. Ma oggi? Dobbiamo continuare a difendere attività residuali? Dobbiamo conservare i pochi posti di lavoro gentilmente concessi dalla Total e da Shell, senza badare alla nostra industria turistica, alla vita dei nostri mari, al riscaldamento climatico che incombe, alimentato in misura così rilevante dal consumo di petrolio?