Solo Tom Waits poteva essere credibile nelle vesti di un eremita che legge Melville e ruba polli ai vicini. È la parte che Jim Jarmush ha ritagliato per il cantautore californiano nel suo ultimo film nelle sale dallo scorso giugno, I morti non muoiono, parodia che si inserisce nel vasto sottobosco di pellicole a metà tra horror e commedia. Il personaggio dell’eremita Jack aggiunge un tassello alla carriera cinematografica di Waits, segnata all’inizio da piccole parti ne I Ragazzi della 56° Strada, in Rusty il selvaggio e in Cotton Club, e poi esplosa con un ruolo tutto suo in Down by Law diretto dallo stesso Jarmusch.
C’ poi stata – dall’anno scorso – la ristampa eremasterizzazione dei primi sette album della sua discografia. Pubblicati originariamente nel corso degli anni Settanta con la Elektra Asylum Records, i dischi, che vanno da Closing Time a Heartattack & Vine, sono usciti (anche in vinile) con l’attuale etichetta del cantautore, la Anti.
TRE FASI
Di Tom Waits si può dire che ha vissuto tre fasi artistiche, coincidenti con altrettante etichette discografiche. Dalla «vita da motel» degli Asylum Years alla «trilogia di Frank» pubblicata su etichetta Island. Fino a giungere alle ultime produzioni Anti. Di sicuro quello che Waits aveva da dire lo ha detto al meglio nelle prime due fasi. Del primo ciclo, quello dei sette titoli di cui sopra, il culmine lo raggiunge Blue Valentine. Ci sono dischi che segnano un punto di non ritorno. Verso qualcos’altro, verso un suono, un modo di comporre, un approccio alla musica diverso. Dischi che non sono ancora il punto d’approdo ma che già fanno presagire dove l’artista arriverà prima o poi a parare. Uno di questi è Rubber Soul dei Beatles: i quattro mettono da parte le canzonette degli esordi e lasciano intravedere sprazzi della futura grandezza di Sgt. Pepper o del White Album. Anche Tom Waits, nel settembre 1978, dà alle stampe il suo disco di svolta. È ancora lontano il terno di album (Swordfishtrombones, Rain Dogs e Franks Wild Year) edito tra il 1983 e il 1987 unanimemente riconosciuto come suo vertice creativo. Ma Blue Valentine è il giro di boa. Da lì Tom inizierà a navigare lungo una rotta diversa da quella seguita in precedenza. Due cambiamenti di stile rendono Blue Valentine una nuova esperienza di ascolto rispetto ai cinque album che l’hanno preceduto. In primo luogo Waits muta la strumentazione: introduce la chitarra elettrica e le tastiere, e in gran parte elimina gli archi, per un suono maggiormente orientato al blues e con un timbro più duro.
In secondo luogo, anche se la sua visione del mondo rimane fissa sui dettagli della tarda notte, i testi si espandono oltre le riflessioni da filosofo da bar, tipiche delle sue canzoni precedenti. Il risultato è un ampliamento degli argomenti, una disciplina narrativa che rende la maggior parte dei brani delle vere e proprie storie-canzoni. C’è di mezzo la travagliata relazione con Rickie Lee Jones, ritratta di spalle nella celebre retrocopertina. Ci sono titoli che parlano da soli, delle vere e proprie dichiarazioni: Christmas Card from a Hooker in Minneapolis, Romeo Is Bleeding, Whistlin’ Past The Graveyard, A Sweet Little Bullet from a Pretty Blue Gun. Niente di sfrontatamente radicale, ma è l’avvisaglia del cambiamento. Tom accentua la pronuncia a denti stretti con cui interpreta i brani, evitando sempre più ogni leziosità da cantante pop. La chitarra elettrica spinge in un angolo l’assetto da trio jazz che aveva caratterizzato i lavori precedenti, in favore di una band più iridescente, formata da musicisti con una forte impronta rhythm’n’blues.
PIÙ AVANTI
La sostanza complessiva di Blue Valentine, divisa tra blues sincopati e ballate melanconiche, offre una concreta anticipazione dell’ibrido selvatico che verrà più avanti. Sarà un caso, ma la copertina del disco è la prima che vede Tom senza una sigaretta in mano o tra le labbra. Forse è solo una coincidenza, ma anche dal punto di vista iconografico si vira in modo deciso verso la visione del wrong side dell’America, abitata da vagabondi, da perdenti, da ogni genere di reietti. Ulteriore segnale della mutazione in atto, per la prima volta Waits inframmezza due anni tra un album e l’altro.
Il rallentamento è sintomo di un momento di passaggio e così il successivo Heartattack and Vine fa la figura di un’opera transitoria, malferma, peraltro incisa in una pausa dal lavoro principale (la colonna sonora del film di Coppola One from the Heart). Passano altri tre anni e, nel 1983, l’inizio del nuovo corso (nuovo stato civile, nuova etichetta, nuovi musicisti e nuovo produttore, Waits medesimo) è da capogiro. Swordfishtrombones è una tregenda americana infestata da freak, rottami umani e sbandati di ogni genere.
RIVERBERI E BALLATE
Il cantante da piano bar si è trasformato in un audace sciamano che sta in piedi tutto il tempo sorretto da ritmi spastici e percussioni concitate. Il disco è infarcito di riverberi, dissonanze, cigolii sinistri generati da prospettive armoniche sghembe, che siano ballad stupefatte o r’n’b tribali. Il timbro vocale caracolla da un animalesco baritono a un falsetto parossistico. Trasferitosi a New York, nel successivo Rain Dogs (1985) Waits si sceglie un pugno di musicisti «storti» (Marc Ribot e Keith Richards per citarne due) con i quali elabora e affina le intuizioni di Swordfishtrombones. Così escono dalle viscere della terra 19 meraviglie sonore tra polka, tango, rumba, folk, blues, country e r’n’r che non lasciano più spazio al languido jazz degli esordi.
Il primo disco di Tom Waits senza Tom Waits in copertina è il suo album più compiuto e riuscito. Due anni dopo la «trilogia» si chiude con Franks Wild Years, teatrale e disarticolato rispetto ai precedenti, ma che sprigiona un’immediata malia tanto da essere il più coverizzato tra i dischi dell’artista californiano (Walkabouts, John Campbell e Grevious Angels sono tra gli artisti che hanno attinto fra i brani contenuti nell’album).
Con la « la trilogia di Frank» l’artista di Pomona diventa una specie di Sinatra dell’altra faccia americana, quella underground, quella esclusa dall’American Dream. Non a caso in Franks Wild Years Tom si avventura nel pop sinatriano, cui rifà il verso in I’ll Take New York.
Mentre però Sinatra ha incarnato appieno il sogno americano e le speranze del dopoguerra, la nazione di Waits è abitata dal popolo dei ghetti, tagliato fuori dalla promessa di possibilità infinite che gli Usa sembrano mettere a disposizione di tutti. Freak nella condizione sociale, nati con lo stigma dei vinti, hanno trovato in Tom Waits il cantastorie che ha sempre contemplato l’America in modo critico, scegliendo di raccontare la faccia nascosta e scura dell’immaginario a stelle e strisce.