«L’arte è una specie di controterritorio che rispecchia la complessità degli esseri umani, fuori dalle convenzioni». Non una forma di governo politico, naturalmente, ma un’esplorazione di sentieri alternativi, guardando ai dati di fatto sotto un’altra luce. Proprio per questo Ralph Rugoff, curatore della 58/a Esposizione internazionale di Venezia, ha proposto di premiare con il Leone d’oro alla carriera l’attivismo poetico di Jimmie Durham. In più, per la sua mostra, ha scelto un titolo come May You Live in Interesting Times, che denota una certa fiducia nelle capacità della nostra specie. «In quanto animali sociali – dice – siamo spinti a creare, trovare significati e metterci in relazione l’uno con l’altro».
Lui, di formazione semiologo, con alle spalle la direzione della Hayward Gallery di Londra e la guida della XIII Biennale di Lione (La vie moderne) del 2015, oltre a un folto numero di mostre che vede protagonisti, tra gli altri, degli eccentrici come Jeremy Deller e Carsten Höller, è pronto a convincere tutti i visitatori della Biennale che non tutto è perduto. Anzi.

«La via da seguire per la Biennale è pensare al format e alla sua struttura, non al tema». È una dichiarazione di intenti, eppure la sua mostra ha un tema forte: «May You Live in Interesting Times». È forse un pronunciamento che punta all’ottimismo?
Credo che viviamo sempre in tempi interessanti quando il mondo sembra essere sull’orlo di cambiamenti molto significativi e, talvolta, pure allarmanti. Mi ha divertito dare questo titolo perché possiede una sua ambiguità intrinseca: somiglia a un invito per intraprendere qualcosa di piacevole, ma potrebbe anche suggerire altro, destando sospetti. Il titolo è, in effetti, un «concetto ambivalente» da quasi settant’anni. Scrittori e politici occidentali, da Albert Camus a Hilary Clinton l’hanno creduto un’«antica maledizione cinese». Apparve in realtà per la prima volta sulla stampa, in un articolo che riguardava un discorso pronunciato dal parlamentare britannico Sir Austen Chamberlain nel 1936, dove si dava notizia dell’ascesa di Hitler. Non esisteva nessuna maledizione cinese – era un proverbio contraffatto, forgiato in Occidente. Tuttavia, nonostante il suo status fittizio, ha avuto effetti retorici reali in importanti incontri pubblici. In un momento in cui la diffusione digitale di fake news sta corrodendo il discorso pubblico e la fiducia da cui dipende, questa storia sembrava sollevare alcune questioni rilevanti. Spero che l’arte possa consegnarci gli strumenti per riuscire a reimmaginare gli scenari di questi «tempi interessanti» in cui ci troviamo a vivere oggi, e trasformare così questa frase: non più un anatema, ma una sfida. Da abbracciare con entusiasmo.

Crede che la formula della Biennale, con una mostra centrale e diversi padiglioni nazionali (sempre molto controversi), abbia ancora una sua validità teorica?
Penso che questa formula sia ciò che rende la Biennale di Venezia unica tra tutte le altre proliferate nel mondo. Aiuta a mitigare l’utopismo idealista che informa troppe rassegne d’arte negli ultimi tempi. A Venezia, il sogno di scambi culturali internazionali (e di cooperazione) che l’Esposizione potrebbe incarnare è bilanciato dall’affermazione degli interessi nazionali nei singoli padiglioni. È un dialogo provocatorio.

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Gli artisti selezionati possono raccontarci qualcosa sul nostro mondo attuale?
Gli artisti sono individui spinti dalla curiosità. Prestano molta attenzione alle cose del mondo – spesso a particolari che molti di noi ignorano o trascurano. Il loro lavoro ci offre la possibilità di considerare le prospettive che abbiamo tralasciato, mostra anche diversi modi di connettere idee e storie, di discernere le relazioni tra ciò che normalmente pensiamo e che non crediamo correlate. L’arte non usa lo stesso linguaggio di un giornale, naturalmente. Non riporta notizie e fatti, ma le mutazioni della nostra esperienza del mondo.

Ci sono numerose artiste nel suo percorso espositivo. È stata una scelta consapevole?
Le artiste hanno sempre avuto qualcosa da dire; la differenza  è che a causa dei cambiamenti sociali avvenuti negli ultimi cinquant’anni, più donne sono in grado di intraprendere una carriera artistica e ricevere il sostegno delle istituzioni pubbliche e del mercato stesso. Ci sono ancora gravi discrepanze nel trattamento delle artiste donne – incluso il fatto che gli uomini riescono a conquistare molte più mostre personali in importanti musei. Il cambiamento è in corso, ma c’è tanta strada da fare.

Quali sono le fonti letterarie che le hanno fornito ispirazione nel dare l’impronta alla sua Biennale?
Ritengo che un libro come L’opera aperta di Umberto Eco sia ancora oggi validissimo, stupefacente. Avevo 16 anni quando l’ho letto per la prima volta. Quel libro spiegava il funzionamento profondo dell’arte, l’abilità nello scovare le ambivalenze, suscitare contraddizioni, inseguire i paradossi. L’arte ha un solo obbligo: la complessità. E nel flusso caotico delle informazioni che caratterizza il nostro tempo ha mantenuto intatta capacità di cogliere nuovi segnali e captare significati originali, soprattutto nell’epoca di twitter e dei social network in cui la comunicazione si riduce a brevi frammenti o a semplici «like».

Conosce gli «ospiti» del padiglione italiano? Cosa pensa delle loro opere e produzione creativa?
Sono un fan di vecchia data del lavoro di Liliana Moro e anche di quello di Enrico David. Non potrebbero essere più diversi nel loro modo di agire, ma entrambi sono fantastici. Conosco molto meno, invece, il lavoro di Chiara Fumai e non vedo l’ora di saperne di più.