Il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti ha dichiarato l’intenzione di «estendere a tutti coloro che ricevono un sussidio e sono in buone condizioni di salute una sorta di servizio civile, un servizio comunitario». Poletti si riferisce ai volontari di Expo 2015, tra i quali anche coloro che hanno perso il lavoro e ricevono il sussidio di disoccupazione potrebbero essere chiamati a svolgere un «servizio comunitario», legittimando così lo smantellamento del welfare e scaricando sulle reti del terzo settore e del volontariato prestazioni essenziali che dovrebbero essere garantite dallo Stato e dai Comuni. Questo esempio, colto dall’attualità, fa capire quale genere di ambiguità attraversino il settore nonprofit. I volontari sono cresciuti, almeno fino al 2012, in maniera inversamente proporzionale al calo dell’occupazione. Più aumenta la crisi, più si sviluppa una forma di welfare della crisi o welfare delle risorse umane che «compensa» le crescenti assenze dello Stato alla luce della paradigmatica gratuità della prestazione lavorativa del nonprofit.

Un settore in espansione

Il nonprofit si è sviluppato negli ultimi anni proprio a causa della crisi economica: 301.191 istituzioni e organizzazioni, quasi un milione di lavoratori, 4,7 milioni di volontari, un fatturato che supera gli 80 miliardi di euro, pari al 3 per cento del Pil nazionale (censimento 2011). Citato da tutte le parti, eppure impenetrabile alle analisi statistiche e alla raccolta di informazioni anche a causa della sua eterogeneità e ambivalenza, è un settore di cui risulta difficile compiere un’analisi critica, anche per ragioni che sconfinano in compositi conformismi, in prudenze e imbarazzi che hanno a che vedere con l’«etica» o con la «morale». «Che cosa c’è di più ripugnante dello schierarsi contro chi si occupa dei poveri, dei deboli, degli ammalati e dei bambini abbandonati?» si chiede infatti Giovanni Moro che, da anni studioso del fenomeno, ha deciso di cimentarsi proprio in questa «ripugnante» operazione.

Già il titolo provocatorio di questo saggio, Contro il nonprofit (Laterza, pp. 180, euro 12), prende posizione rispetto alla retorica che aleggia da sempre intorno all’argomento. Una monografia, dunque, per sviscerare tabù e incoerenze del «terzo settore» che arriva 15 anni dopo il pionieristico lavoro di Paola Tubaro Critica della ragion nonprofit (DeriveApprodi) a conferma di come in Italia sia faticoso affrontare l’argomento e di come esso risulti involuto dentro i vari ordini discorsivi del «bene comune», dell’«economia solidale», del «senza scopo di lucro».

A parere dell’autore, il variegato arcipelago di organizzazioni di volontariato, associazioni, cooperative sociale e fondazioni che compongono il nonprofit presenta tre ordini di criticità: «Il principale, e fondamentale, limite (…) è la definizione negativa e residuale del settore non profit». Qualsiasi definizione per negazione (che sia «non» o «post») risulta infatti equivoca e ambivalente. Una definizione così lasca e non affermativa finisce per favorire l’inserimento di attività, che solo formalmente si possono fregiare di tale titolo, senza poi esserlo nella sostanza. Il secondo limite sta nel riferimento alla «filosofia sociale» evocata dal settore: come ci ricorda Moro, il nonprofit viene per la prima volta analizzato e teorizzato in una ricerca della John Hopkins University a metà anni Novanta (L.M. Salamon, H.K. Anheimer, The Emerging Non Profit Sector: an Overview, Manchester University Press) in 13 paesi, tra cui l’Italia. La «filosofia sociale» che da lì deriva fa perno su alcuni criteri, tra i quali il carattere privato (separazione dal governo), la non distribuzione di utili ai soci e ai manager, l’autogoverno, il volontariato. Proprio tali criteri, rappresentano anche i tre vizi di fondo del nonprofit: l’«economicismo», ovvero la finalità di produrre beni e servizi e di creare occupazione; la sussidiarietà alle strutture di welfare (quindi il suo essere strumento di workfare o, nell’espressione dell’autore, «welfare all’americana»); e, infine, l’abuso dell’«ideologia del capitale sociale», ovvero l’idea, tutta da verificare, che costituire un’associazione già di per sé implichi un valore sociale, a prescindere dalle finalità.

Partendo da questi presupposti contrastanti del terzo settore, nella seconda parte del libro Giovanni Moro analizza le criticità relative al rischio, in ambito operativo, di «confusione e sovrapposizione tra soggetti, campi di attività e modalità di azione».

Gli esempi non mancano e numerosi sono quelli riportati nel libro. Che cosa hanno infatti in comune un centro fitness e un’organizzazione sportiva per disabili? Oppure, un’università non statale e il doposcuola di un quartiere periferico dove l’abbandono scolastico è elevato? Da un punto di vista giuridico tutto rientra nella categoria nonprofit, ma è evidente che le finalità sociali ed economiche possono essere distanti anni luce l’una dall’altra. Ne risulta una carenza definitoria, nelle cui larghe maglie facilmente si possono infilare attività di auto-reddito che di sociale hanno ben poco. È necessaria quindi un’opera di distinzione, argomento a cui è dedicata la parte construens del libro. Giovanni Moro, fondatore della rete europea Active Citinzenship Network, partendo dalla sua esperienza sul campo, ritiene che l’ambivalenza del settore nonprofit, pur accompagnato da un alone di credibilità, ne metta a rischio la sopravvivenza.

Benché analizzi il contesto con occhio acuto e critico, l’autore non si sofferma in modo approfondito sulla funzione di governance che oggi il nonprofit ha assunto in presenza delle nuove forme di valorizzazione economica in un contesto di bio-capitalismo cognitivo. Se è semplice individuare l’espansione del settore nonprofit come sussidiario dei servizi sociali in conseguenza allo smantellamento del welfare pubblico voluto dal potere finanziario, meno chiaro è il ruolo che lo stesso settore sta assumendo nel processo di valorizzazione, mercificazione e sussunzione capitalistica della stessa vita umana.

L’amabile cattura

Questo aspetto sfugge all’autore, mentre va ritenuto centrale proprio a partire dal tema della gratuità del lavoro impiegato nel settore sotto la veste di lavoro volontario. L’economia amabile, giusta ed equa, viene contrapposta agli egoismi di mercato ma può viceversa essere interpretata come una sofisticata modalità di cattura della agency umana, cioè del rapporto tra cultura, linguaggio e società. Parliamo dell’inclusione dei processi della riproduzione sociale, intesa come dimensione essenziale dell’agire socio-culturale dell’uomo e della donna. La disposizione alla cura e le attitudini relazionali vengono piegate a processi di valorizzazione, che appannano la differenza tra produzione e generazione. Il «capitale sociale» – che si manifesta attraverso alcune caratteristiche umane, quali l’approccio relazionale, la fiducia, la reciprocità, la cooperatività e la gratuità – viene messo al lavoro dal settore nonprofit illuminando una domanda di fondo: questo impiego biopolitico della vita, apertamente mercantile ma tuttavia basato sull’infingimento dell’immagine del lavoratore ispirato, libero, appassionato, porta alla salvezza oppure alla svalutazione e alla disumanizzazione del lavoro?