Se non fosse per la strage di Parigi, i giornali di oggi discuterebbero della tragedia economica europea. I sei mesi della presidenza italiana, che potevano cambiare la politica europea, non solo sono passati senza segni particolari, ma hanno prodotto una ulteriore stretta sui conti pubblici e sugli investimenti necessari per uscire dalla crisi.

Juncker-Renzi hanno fallito (mentito) ancor prima di cominciare. Doveva partire un piano di investimenti europeo eccezionale? 300 miliardi di risorse aggiuntive? Risultato? Le risorse finanziarie disponibili non superano i 21 miliardi. La presa in giro era troppo grande, quindi Juncker-Renzi hanno deciso di togliere dal deficit gli investimenti pubblici (nazionali) che andranno al fondo europeo degli investimenti (Esfi) a sostegno di quelli privati. Non spesa immediata per attutire la crisi e infrastrutturare l’Europa, piuttosto investimenti «figurativi». Conosco l’intolleranza alimentare e l’allergia da polline; l’allergia da spesa pubblica è una nuova declinazione di questa fastidiosa malattia.

Maggiore flessibilità per i conti pubblici? La materia è delicata, ma i nuovi criteri restringono i margini di manovra. Si concede la possibilità di superare il vincolo del 3%, alla sola condizione di introdurre riforme strutturali (taglio di spesa pubblica, riduzione delle tasse, flessibilizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni).
L’austerità espansiva reinterpreta il deficit: se tagli la spesa inevitabilmente diminuisce il Pil e l’occupazione, alzando il rapporto deficit-Pil, ma anche il liberismo ha bisogno del suo deficit «naturale». Il deficit sdoganato da destra è una novità in Europa, anche se l’esperienza di Reagan e Bush qualcosa aveva insegnato.
Ma l’aspetto peggiore non è questo. L’attuale regola di pareggio di bilancio di medio termine (Mto) prevede un aggiustamento strutturale dello 0,5% del Pil. Renzi rivendica l’introduzione di una maggiore flessibilità, cioè quella di legare l’aggiustamento fiscale all’ampiezza del così detto output gap: tanto più è elevata la differenza tra Pil potenziale e reale, tanto più sarà minore lo sforzo richiesto di aggiustamento. Peccato che i criteri di determinazione del Pil potenziale e reale tendono a coincidere, eliminando alla fonte tutta la presunta flessibilità.

Se proprio dobbiamo esaminare una novità è quella di valutare meglio il ciclo economico prima di intraprendere riforme di contenimento del bilancio pubblico. Leggo da Il Sole 24 ore di ieri (B. Romano): «… è l’aspetto più complicato – spiega un diplomatico -. Non è facile mettere a punto chiari modelli per quantificare il peso da dare alle riforme». Draghi sembra l’unica persona ragionevole. Impegnerà la Bce per 500 mld di euro per acquistare titoli pubblici e tentare di far salire l’inflazione al 2%. Il punto non è capire se Draghi ha torto o ragione, anche se alcune idee circa la necessità di una politica espansiva sono emerse da molti suoi discorsi, piuttosto l’inettitudine della classe dirigente nazionale ed europea. Non dimentichiamo che l’anno scorso Francia e Italia avevano deciso di sforare il deficit pubblico, ponendo il problema politico a tutta l’Europa e alla Germania. Renzi si smarca mettendo in difficoltà la Francia, allontanando la possibilità di una riforma seria del bilancio pubblico europeo. Questo è il lascito del semestre europeo.