A più di cento anni dal suo inizio la Grande guerra si presenta come un «oggetto storico» che, per la sua natura composita, stratificata, al medesimo tempo ecatombe bellica e apocalisse civile, quindi punto di confluenza e di esplosione di una pluralità di tensioni, è destinato ad essere affrontato dai contemporanei come un campo di significati ancora aperti a indagini e a riflessioni in divenire. Da quest’ottica, quella guerra non si è mai del tutto conclusa. Non almeno nei nostri pensieri, pur presentando un’apparente unitarietà di eventi, con un avvio e una cessazione, che ne circoscrivono gli ambiti strettamente cronologici. Basti tuttavia un rimando, tra i diversi possibili, per offrire la cifra della sua complessità: alla conclusione dei combattimenti sui campi di battaglia si aprì un periodo di conflitti civili che attraversarono l’Europa orientale per diversi anni.

Nodi irrisolti

Interrogarsi se la guerra fosse per davvero finita nel novembre del 1918 o, sia pure in forme clandestine, surrogate e surrettizie, si sia invece riprodotta nel corso del tempo, rafforzando quel campo di contrapposizioni che portò ai fascismi e poi, in una successione non solo cronologica, alla Seconda guerra mondiale, è qualcosa di più di un esercizio di scuola. Perché rimanda al fuoco della questione del rapporto tra consenso, violenza e cambiamento nelle società della trasformazione permanente.

Il nocciolo della Grande guerra, a ben guardare, sta nel suo complesso carattere industriale. Un’officina totale, dove le società venivano smontate e rimontate secondo filiere inedite, organizzate in base all’asfissiante criterio di un costante «stato di eccezione», in virtù del quale sacrificare ogni garanzia. Alla mobilità sociale, rivendicata da un nutrito insieme di gruppi affacciatisi sul proscenio collettivo già durante gli anni rivoluzionari che ebbero nel 1848 il loro primo culmine, per poi proseguire nei decenni successivi, fu quindi risposto, nel lungo periodo, con la mobilitazione spasmodica delle loro energie verso obiettivi nazionalistici. All’interno di una cornice politica continentale di tale genere, le società subirono un processo di accelerazione violenta nei processi di mutamento interno.

La Prima guerra mondiale è quindi evento spartiacque nella definizione tra un prima e un dopo nella nostra idea di modernità. Quanto meno sul piano della riflessione storiografica, la quale ha messo già da tempo in rilievo il suo carattere genetico, ossia istitutivo, di una frattura che ha poi attraversato l’intero Novecento. Ai fatti materiali, così come agli effetti politici, a partire dalla dissoluzione degli Imperi, si è accompagnata la fine della fede nel progresso. Per meglio dire, posta la sua natura di religione civile, come tale irrinunciabile, esso non ha più mantenuto il carattere di antitesi alla barbarie.

Il trauma della trincea

Un bilancio storico e storiografico a tale riguardo è quello offertoci da Antonio Gibelli ne Il colpo di tuono. Pensare la Grande Guerra oggi (Manifestolibri, pp. 256, euro 22). Si tratta di un volume composito, che affronta diversi piani, tra di loro intersecati, del conflitto mondiale, privilegiando tuttavia lo sguardo antropologico e fenomenologico: le esperienze mentali dei combattenti, dalla dimensione ordinaria della quotidianità bellica al trauma insuperabile e alienante del combattimento; il mutamento della percezione dello spazio, del tempo e dell’identità personale nei coscritti inviati al fronte, dinanzi ad una realtà per più aspetti incomprensibile, dove «la terra tremava, il cielo sembrava una gigantesca marmitta in ebollizione»; la commistione tra umano e tecnica, ovvero tra soggettività e tecnologia, che rimanda al nesso tra naturalità e artificialità in forme del tutto inedite e fino ad allora impensate; la sensazione che la guerra moderna fosse di per sé «illimitata», ossia capace di rigenerarsi autonomamente, indipendentemente da obiettivi politici, mete dichiarate, avvii e conclusioni, negoziazioni e armistizi; l’omologazione tra i fronti e gli eserciti, così come tra i Paesi appartenenti ai diversi schieramenti, divisi in falangi contrapposte ma sottoposti a pressioni «telluriche», con effetti di profondo scardinamento dei vecchi ordinamenti sociali e culturali; il pesante intervento della propaganda, ora non più tesa solo ad orientare i sentimenti collettivi ma a costruire realtà parallele, a diffondere idee e convincimenti profondi destinati a persistere e a sopravvivere alla conclusione delle stesse ostilità; il coinvolgimento dell’infanzia e della prima gioventù, a più livelli, da quello iconografico e affettivo (il sacrificio di una nazione, dei suoi padri di famiglia, per il bene a venire dei propri figli) fino al «giovanilismo», al quale i fascismi si sarebbero nutriti a lungo; la guerra come rito di passaggio e di iniziazione, verso un mondo che si diceva non sarebbe più stato «borghese» (e quietistico) nel mentre molte delle forme di solidarietà collettiva venivano scardinate.

Questi ed altri sono i campi di incursione dell’autore che, in tale modo, si interroga nel merito del posto occupato dalla guerra nella storia del Novecento e le sue relazioni con la costruzione di una modernità assoluta, totalitaria, basata sulla diffusione di procedure seriali, cioè sulla standardizzazione, sulla ripetizione, l’assuefazione, in ultima istanza l’espropriazione della soggettività. Non sono campi d’indagine di per sé inediti. Da una quarantina d’anni hanno trovato, a tratti faticosamente, ospitalità e statuto nelle discipline storiche, ibridandone metodologie e contenuti.

Il divenire del Moderno

Il volume di Gibelli, composto da una decina di saggi, ne è una sorta di rilettura critica, anche alla luce della riflessione da tempo offerta da studiosi come Paul Fussel, Eric Leed, Annette Becker e Stephane-Audoin Rouzeau, per citarne alcuni tra i tanti. Il suo pregio è quello di sedimentare le competenze accresciutesi in questi decenni, permettendo uno sguardo prospettico che può risultare propedeutico a ulteriori sviluppi, a nuovi rimandi, ad approcci integrati, dove la guerra non è una eccezione nella fisiologia delle società contemporanee e neanche una patologia del moderno ma una parte integrante del divenire delle une come dell’altro.