Wolfgang Schaeuble, prima di congedarsi, ha lasciato sul tavolo dell’Eurogruppo un frutto avvelenato: un documento in cui si propone di trasformare l’attuale Fondo salva Stati (Esm) in un super-controllore (del tutto spoliticizzato) dei bilanci nazionali. Non solo.

Alla richiesta di aiuto da parte di uno Stato (come è stato per la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda) corrisponderebbe il fallimento automatico dello stesso. Un meccanismo simile a quello previsto per il settore bancario, che esporrebbe in misura minore l’Esm nel caso di nuovi salvataggi (una parte degli oneri se li sobbarcherebbero gli investitori). Di fatto, una spada di Damocle sulla testa dei Paesi della periferia, costretti a ridurre il proprio debito secondo le linee del Fiscal compact, per non finire nel girone dei dannati.

Per l’Italia, uno scenario da incubo. Vero è che il nostro debito, per effetto della ripresina e dei tagli alla spesa pubblica, si è, in qualche modo, “stabilizzato” in rapporto al Pil, ma la sua consistenza, in valore assoluto, continua a far paura. A maggior ragione pensando alla fine del Quantitative easing (rischio attacchi speculativi, impennata dei tassi d’interesse).

Parliamo di una massa di 2300 miliardi di euro, che continua a crescere inesorabilmente, mangiando risorse che potrebbero essere impiegate a fini redistributivi (85-65 miliardi l’anno di interessi tra il 2012 e il 2016). Senza andare troppo indietro nel tempo (dovremmo tornare al “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia), è utile ricordare che tra il 2008 e il 2014 il debito italiano ha fatto un balzo in avanti del 30% in rapporto al Pil, passando 99,8% al 131,8%.

Perché? La recessione, da sola, non spiega questo dato. Di mezzo, innanzitutto, c’è che il debito, nelle condizioni date, è un mostro che si autoalimenta (spirale debito/interessi), poi c’è anche la nostra partecipazione ai salvataggi bancari su scala europea, ovvero al prodigio della trasformazione di ingenti debiti privati in debiti pubblici. A tutto il 2016, l’ammontare delle quote versate (a debito) dall’Italia nelle casse della Troika, sotto forma di prestiti a Stati membri (bilaterali o attraverso l’Efsf), e di partecipazione al capitale dell’Esm è stato pari a circa 58,2 miliardi. In percentuale, 4 punti di Pil. Ma non è finita: nel 2016 abbiamo costituito un nuovo fondo salva banche che vale, nel complesso, 20 miliardi (sempre a debito).

Non se ne esce: i sacrifici che si continuano a chiedere agli italiani non contribuiscono a scalfire la montagna del debito, servono a malapena per pagare gli interessi. Quelli che vorrebbe l’ex ministro delle finanze tedesco, invece, ci porterebbero direttamente alla crisi umanitaria.

Che fare?

La prima strada è quella battuta finora: austerità e privatizzazioni. Una convergenza verso gli obiettivi del Fiscal compact «guidata dal contributo crescente dell’avanzo primario», come si legge nell’ultima Nota di aggiornamento al Def varata dal governo.

L’altra strada? Nella cornice attuale il sentiero per gli Stati dell’Unione è davvero molto stretto. In teoria, una ristrutturazione del debito sarebbe possibile, ma la reputazione del Paese? Il giudizio dei mercati? Sarebbe come dichiarare fallimento (la premessa da cui è partito Schaeuble)! L’altra soluzione richiede un intervento della Bce. L’istituto di Francoforte dovrebbe acquistare senza interessi titoli di debito a scadenza dei Paesi dell’Eurozona e convertirli in titoli irredimibili (di cui non si chiede più il rimborso).

Qualora per questi acquisti, come prevedono alcune proposte in campo, la Bce emetta a sua volta obbligazioni, le sue perdite (interessi) sarebbero compensate dalla rinuncia da parte degli Stati agli utili derivanti dalle attività – titoli, valuta estera, prestiti alle banche commerciali – possedute in contropartita alle banconote in circolazione dalla banche centrali nazionali.

Ma il clima è favorevole per queste soluzioni? Che la proposta di Schaeuble passi è un po’ difficile, ma questo alzare il prezzo da parte della Germania la dice lunga sulle intenzioni del suo prossimo esecutivo a proposito di riforma dell’Unione monetaria.