Come si guardano bene dall’insegnare a scuola guida, la svolta a destra finisce sempre con un sinistro. Altrettanto puntualmente, il seggio della settentrionale, deindustrializzata, depressa e un tempo ormai lontano roccaforte laburista Hartlepool è finito nella borsa di Gucci della proprietaria terriera Jill Mortimer – una che a suo dire ha passato più tempo alle Cayman che nella cittadina – con 15.529 voti contro gli 8.589 del candidato laburista Paul Williams, un medico che si è fatto un mazzo così durante la pandemia. Una maggioranza con la quale ora Boris Johnson può rivestire i muri del suo mezzanino a Downing Street senza ricorrere alle donazioni farlocche degli amichetti.

È UN SOLO SEGGIO a Westminster, ci si dirà per elaborare il lutto. Ma nel sistema inglese, liberalmente calibrato per dare potere a chi lo ha già, la by-election è un termometro abbastanza preciso degli umori dell’elettorato. E un segnale del genere, da un collegio del genere, è uno sfacelo. Senz’altro in linea con quello del 2019, quando al timone era ancora Corbyn e di cui doveva essere il correttivo a 13 mesi di distanza. Ma il coro tecnocratico che guida il partito e ha voluto questo leader intonando fino allo strazio la nenia dell’eleggibilità, è già pronto a voltare pagina allo spartito: il problema non poteva essere risolto in un anno, Corbyn era una figura patetica e velleitaria e ha irreparabilmente danneggiato la nostra immagine agli occhi pragmatici e disincantati delle comunità del Nord e variazioni sul tema. Donde: bisogna spostarsi ancora più a destra.

L’ODIUM SUI LUTERANO che porta l’egemonia neoliberale restaurata in questo sciagurato partito a odiare, appunto, la propria identità ideologica è un interessante caso psicotico-politico. Starmer, finora unico leader laburista della storia con il risvolto della giacca trafitto dalla patacca di «Sir» (e ora probabilmente antecedente di quelli a venire) sembrava l’uomo giusto: uno in fin dei conti parte dell’establishment, avvocato con interessi sociali ma soprattutto civili, che avrebbe ricucito la faglia apertasi nel Labour fra i doppi-petti post-blairiani, le origini operaie del partito e le nuove generazioni schiacciate dalla crisi post-2008. A un anno di distanza si può affermare che l’unica cosa vagamente di sinistra in lui sia il nome di battesimo (Keir, come lo scozzese leader storico Hardie). La purga politica condotta con la scusa dell’antisemitismo è stato tutto quello che ha saputo esprimere: si è dissociato da Black lives matter, non ha spiccicato sillaba sulla stretta autoritaria della ministra dell’interno e si è limitato a un irritante balbettio sulle sozzate etiche di un premier che dell’etica, simpaticamente, se ne impipa. E che più se ne impipa più è apprezzato.

IL CAPRO ESPIATORIO della sconfitta di Corbyn del 2019 è servito a buttarla in caciara sulle responsabilità di un partito che ha iniziato a perdere il Nord ai tempi di Blair. Corbyn, nel 2017, l’anno delle politiche anticipate volute d Theresa May, era stato l’unico a invertire il dissanguamento con un programma autenticamente socialista. La destra del partito gli ha tirato il remain tra le gambe pur di liberarsene.

IL FATTO È CHE JOHNSON è l’uomo del nazionalismo inglese a cui l’elettorato inglese, di destra e di sinistra, ha dato il beneplacito di gestire l’uscita dall’Europa a costo di perdere l’Unione con Scozia e Irlanda del Nord. L’Inghilterra è come una paziente che ha scelto il chirurgo che deve amputarla. Per questo a Hartlepool nessuno lamenta la disastrosa gestione dell’inizio della pandemia, i primi morti per Covid, l’andirivieni tra aprire e chiudere l’economia privilegiando il business sulla nuda vita dei concittadini: Johnson ha dato loro Brexit e promesso un sacco di soldi, tanto vale firmargli un assegno in bianco. Al che diventa lecito chiedersi a cosa serva questo partito laburista. Che come un boscaiolo scemo sega il ramo su cui è seduto.