Riunito alla conferenza di Liverpool, il Partito laburista modula la propria posizione su Brexit, ben sapendo che il proprio disaccordo interno sull’opportunità o meno di sostenere un secondo referendum è pur sempre poca cosa se paragonato al cuneo ligneo nel cuore che la questione è per i Tories.

LA DIFFERENZA fra i due scenari è lampante: i primi si azzannano tra loro su come la Premier sta gestendo i negoziati, i secondi cercano di mantenere tutte le opzioni aperte a una possibile tornata di elezioni anticipate da cogliere per installare un governo ur-socialista nelle macerie sociali dell’Europa neoliberale. Non che i secondi nel fare ciò evitino il rischio di confusione: ma è, il loro, un attendismo relativamente innocuo rispetto alla foga fratricida dei primi. L’uscita di emergenza da questo teatro dell’assurdo dove la pragmaticissima patria del «common sense» è andata a infognarsi è dentro un dedalo.

Lunedì c’è stata la prima apertura ufficiale da parte del cancelliere-ombra John McDonnell a un «voto popolare» sull’esito dell’accordo che la boccheggiante May sarà in grado di portare a casa. E oggi nel suo intervento al congresso, è toccato al ministro ombra per Brexit, Keir Starmer – che assieme al deputy leader del partito Tom Watson rappresenta l’ala centrista – di aprire ulteriormente ai remainer: nel suo applauditissimo discorso ai delegati ha ribadito che il partito non ha del tutto escluso la possibilità di un altro referendum che dia una seconda chance al 48% (oggi i sondaggi danno un 40% a favore di un nuovo referendum contro il 31% dell’anno scorso) sconfitto nel 2016. Starmer ha incluso la rivelazione a braccio nel suo discorso, che la bozza diffusa preventivamente ai giornalisti non conteneva. Una chiara sfida alla leadership, che invece ha fatto finora dell’equivocità della propria posizione una forza.

Lo strappo di Starmer ha provocato la reazione del sindacato Unite, che attraverso uno dei suoi membri ha ribadito che il partito intende semplicemente offrire «un voto pubblico sui termini dell’uscita» che May sarà in grado di ratificare con la controparte (e già su questo le previsioni sono fosche, vista la reazione tiepida anzichenò riservata dalla stragrande maggioranza dei leader europei alle sue proposte).

È INFATTI QUASI MATEMATICO che il Labour voterà contro questo accordo qualunque esso sarà: la posizione attuale del partito è che il Paese dovrebbe rimanere nell’unione doganale ma abbandonare il mercato unico: ben diverso dalla politicamente sanguinosa proposta di accordo formulato a Chequers da Theresa May che, come un Frankenstein, assembla parti diverse e contradittorie (restare allineati all’Europa per quanto riguarda le merci ma non le persone e i capitali: la botte piena e la moglie ubriaca ampiamente dileggiata da Donald Tusk e aborrita dagli ultrà euroscettici di Jacob Rees-Mogg insomma).

La dirigenza del partito non vuole un altro referendum pur andando contro la volontà di una parte cospicua dei propri membri per abbastanza ovvi motivi: è consapevole che buona parte del proprio elettorato ha votato appassionatamente per uscire dalla perfida Ue e non perdonerebbe una marcia indietro; in più, paventa l’ulteriore disgregazione e malessere sociale che un altro referendum infliggerebbe a un Paese già abbastanza dolorosamente diviso.