Tra una settimana esatta, il 21 gennaio, la Serbia avvierà i negoziati d’adesione con l’Ue. L’appuntamento viene definito «storico». In effetti segna la fine di un percorso durante il quale la Serbia s’è riscattata agli occhi dell’opinione pubblica europea e internazionale, riuscendo a restare in equilibrio, con la barra puntata su Bruxelles, anche quando ha dovuto rispondere a prove sensibilissime. È il caso della consegna alla giustizia internazionale di Radovan Karadzic, Ratko Mladic e Goran Hadzic. È il caso dei recenti accordi sulla normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, ancora condizionati dai retaggi del conflitto del 1998-1999 e dall’indipendenza unilaterale proclamata da Pristina nel 2008.

Il paradosso, se così si può dire, è che Belgrado taglia questo traguardo con un assetto politico segnato dal dominio del partito socialista (Sps) e di quello progressista (Sns), a trazione nazionalista-conservatrice. L’uno esprime il capo del governo, Ivica Dacic, che in passato fu portavoce di Milosevic. L’altro è stato fondato dal presidente della repubblica Tomislav Nikolic, a lungo vice del capopopolo della destra oltranzista Vojislav Seselj, con cui però ruppe qualche anno fa, convergendo sull’opzione europeista.

Quando i due salirono sulla plancia di comando si disse che la Serbia sarebbe ripiombata nel passato e che gli sforzi compiuti in nome della causa europea dall’ex capo di stato Boris Tadic sarebbero stati bruciati rapidamente. Non è andata così. Dacic, Nikolic e il vice primo ministro Aleksandar Vucic, in quota Sns, personaggio sempre più influente, non hanno invertito la rotta. Anzi, hanno approfondito il discorso. Anche perché realisticamente parlando Belgrado non ha alternative all’Europa, se non quella, ancora più costosa, dell’isolamento.

Il momento che ha aperto la via verso l’Europa è stato quello degli accordi sulla normalizzazione dello scenario nel Kosovo settentrionale, a maggioranza serba, dove Belgrado ha sempre gestito ogni faccenda attraverso le cosiddette «istituzioni parallele» (pubblica amministrazione, polizia, magistratura, istruzione), privando il Kosovo dell’esercizio di sovranità – una sovranità tutt’altro che unanimemente riconosciuta a livello internazionale – su una parte del suo territorio.

L’intesa con il Kosovo, «suggerita» dalla Germania e mediata dalla responsabile della politica estera Ue, Catherine Ashton, prevede il parziale smantellamento di queste stesse istituzioni. Il passaggio cruciale riguarda polizia e magistratura, che confluiscono, dietro adeguate garanzie, nelle strutture di Pristina.

Gli accordi, definiti nei mesi scorsi, hanno previsto inoltre che a inizio novembre anche le aree settentrionali del Kosovo organizzassero le municipali, in linea con il resto del paese.

Il voto è stato segnato da episodi di violenza e da un’affluenza bassissima. Il segno inequivocabile che una larga fetta dei serbo-kosovari respinge con forza e apertamente ogni dialogo con Pristina. Belgrado sta cercando di convincerli che l’intesa non lede i loro interessi – evita anzi possibili soprusi da parte albanese – e non costituisce l’anticamera del riconoscimento del Kosovo (che la stessa Serbia ufficialmente non riconosce).

Non sarà semplice, come conferma, notizia di ieri, il rifiuto di Krstimin Pantic di insediarsi come sindaco della porzione settentrionale, quella serba, della città divisa di Mitrovica (nella foto reuters). Il politico, esponente dell’Sns, ha spiegato che non intende firmare l’atto di giuramento, dove appare lo stemma kosovaro. Il fatto conferma che il nodo del Kosovo è tutt’altro che risolto e condizionerà i negoziati tra Belgrado e Bruxelles. Sarà un’altra lunga strada da percorrere, lastricata di insidie e incognite. L’adesione della Serbia all’Ue – Dacic dice che potrebbe essere sancita nel 2020 – passa soprattutto da qui.

Intanto, mentre l’economia è da poco uscita dalla recessione, ma registra un allarmante 25% di disoccupazione, crescono le voci sulle elezioni anticipate. È il partito progressista a spingere in questa direzione, forte della crescita nei sondaggi e stanco della coabitazione con i soci minori socialisti, che dal canto loro mediterebbero di ricostruire l’alleanza con il partito democratico (Ds) di Tadic, che caratterizzò la precedente legislatura.

Il voto potrebbe tenersi già a marzo, appena incassata l’apertura nei negoziati con l’Ue. Insomma: se le righe vanno sciolte, meglio farlo minimizzando ogni rischio. Conviene a tutti.