Per protestare contro le vignette satiriche danesi ai danni di Maometto, Majid Majidi ritira il suo film The Willow Tree dalla 17esima edizione del NatFilm Festival danese. «Protesto contro gli insulti rivolti a ogni fede o icona religiosa», dichiarò all’epoca. Aggiungendo: «Vivo la mia fede in ogni momento della mia esistenza».

 

 

Probabilmente è proprio in seguito a questo clamoroso incidente, così foriero di conseguenze, che il regista iraniano, candidato nel 1998 all’Oscar per I bambini del cielo, matura il progetto di realizzare un film dedicato al profeta in grado di offrire dell’Islam un’immagine diversa dalle banalizzazioni, dai luoghi comuni e razzismi. Presentato a Montreal lo scorso agosto e a Bydgoszcz, nell’ambito di CameraImage, Muhammad: Messenger of God sembra un reperto dimenticato di un altro tempo e cinema – in corsa per l’Oscar al film straniero è stato escluso ieri.

 

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Majidi, cineasta che ha lavorato con Makhmalbaf, apprezzato per il suo approccio intimista, ha realizzato un kolossal in piena regola. Di quelli che avrebbe potuto realizzare un John Huston alla fine dell’impero hollywoodiano per De Laurentiis o un Ponti convocando a Cinecittà i Joseph Cotten e le Ava Gardner di turno.

 

 

Sceneggiato con grande accuratezza storica, religiosa e filosofica da Kambozia Partovi, protagonista e coregista di Closed Curtain di Jafar Panahi (la sorprendente e inattesa libertà dei corto circuiti del cinema iraniano), il film ripercorre l’infanzia del profeta sino al suo viaggio in Siria dove incontra il monaco nestoriano Bahira (della cui vita esiste sia una versione musulmana che cristiana) il quale rivela al giovane la sua vocazione profetica (secondo quanto scrivono Muhammad Ibn Jarir al-Tabari, Ibn Hisham e Ibn Sa’d al-Baghdadi).

 

 

Stando alle fonti più accreditate, il monaco vide sul ragazzo il segno della nuvola e dopo averlo attentamente studiato scopre il segno del sigillo della Profezia tra le sue spalle. Incontro cruciale, questo, perché centrale nella questione relativa alla corruzione dei Vangeli e in particolare alla interpretazione del termine greco «parakletos» (consolatore, avvocato, difensore). I musulmani optano per «periklytos» (glorioso), inteso come riferimento al nome arabo Ahmad, uno pseudonimo di Maometto nel Corano, il cui significato è «il glorioso», «il glorificato».

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Costato circa quaranta milioni di dollari, il film si è rivelato il più grande incasso del cinema iraniano contemporaneo. Operazione culturale di grande complessità e politica, Muhammad: Messenger of God è un autentico saggio di teologia (basta avere la pazienza di scorrere i titoli di coda per rendersene conto). Majidi, appoggiato dall’ayatollah Ali Khamenei, ha contato sulla collaborazione dei maggiori studiosi e filosofi per tracciare un ritratto quanto più accurato possibile dei primi anni della vita del Profeta. Così, mentre Daesh o Boko Haram si fanno portatori di un Islam wahabita e salafita, gettando su di esso una luce sinistra e sanguinaria, l’Iran, considerato ancora come un paese nemico nonostante gli accordi nucleari e sul quale gravano pesanti sanzioni economiche, nonché obiettivo numero uno del califfato, ne offre una versione umanista e aperta al dialogo; ideale punto di congiunzione con le altre due confessioni monoteiste: il cristianesimo e l’ebraismo.

 
Propaganda sì, dunque, ma ecumenica. Non è un caso che la natività di Maometto richiami iconograficamente quella di Gesù che è considerato un profeta anche dai musulmani (infatti nella tradizione messianica islamica, Cristo tornerà sulla terra alla fine dei tempi annunciando il giorno del giudizio finale). Eppure, pur non mostrando mai il volto del profeta (il bambino che lo interpreta è ripreso sempre di spalle), ed evitando accuratamente le divergenze teologiche tra sciiti e sunniti, le reazioni sunnite sono state durissime. L’università egiziana di Al-Azhar ha chiesto che l’Iran mettesse al bando il film; il mufti Abdul-Aziz ibn Abdullah Al Shaykh ha dichiarato che la pellicola sminuisce il ruolo del profeta mentre la Raza Academy indiana ha pronunciato una fatwa contro il regista e il compositore tamil, A. R. Rahman.

 
Muhammad: Messenger of God, girato in pellicola, in parte a Qom e in Sudafrica, nei suoi passaggi più avventurosi evoca David Lean, mentre sembra optare per una calligrafia zeffirelliana quando si tratta di mettere in scena i momenti più dottrinali. Fotografato da Vittorio Storaro (che ha avuto al suo fianco uno stuolo di trenta assistenti e interpreta cromaticamente il processo di formazione del profeta), è una produzione a grande partecipazione italiana: montaggio di Roberto Perpignani, trucco di Giannetto De Rossi, effetti speciali di Stefano Corridori.

 

 

In un certo senso, Muhammad è il corrispettivo islamico di Exodus – Dei e re di Ridley Scott: la rifondazione dell’immagine di un popolo attraverso l’immagine della sua storia ripensata nella sua confessione. Intanto Majidi, dal palco di CameraImage, ha annunciato la realizzazione di altri due capitoli dedicati alla vita adulta e alla vecchiaia di Maometto.