«Da bambini giocavamo sempre a fare gli stregoni. Prendevamo un bastone di legno appuntito e infilzavamo un fascio di foglie, una rana o una lucertola morte, e un paio di pomi di Sodoma e poi piantavamo il bastone lungo il sentiero. Lo tenevamo a distanza e quello che ci eccitava di più era vedere gli adulti, uomini e donne belli cresciuti, che evitavano ogni contatto con il fagotto».
Ha inizio così la carriera di Kamiti nel mondo della stregoneria: giocando e scherzando, una volta adulto, Kamiti si ritrova mago «professionista», apprezzato e temuto in tutto il suo paese, grazie all’aiuto dell’amata Nyawira.
I due protagonisti dell’ultimo romanzo di Ngugi Wa Thiong’o, Il mago dei corvi, uscito in originale nel 2006 e tradotto ora per la prima volta da Andrea Silvestri per La nave di Teseo (pp. 910, e 24,00), sembrano l’evoluzione e al tempo stesso il ribaltamento dei personaggi che comparivano nel più noto romanzo dell’autore keniota, Un chicco di grano, il grande racconto, datato 1967, sulla indipendenza del Kenya dal dominio britannico.

Il dittatore di turno
Qui Gikonyo è l’eroe anti-coloniale e la moglie Mumbi l’icona-madre della nuova nazione, la cui voce è soffocata da quella maschile. Nella Repubblica Libera di Aburiria, il paese fittizio dell’Africa orientale dove è ambientato Il mago dei corvi e il cui Presidente possiede le più tipiche caratteristiche del moderno dittatore – feroce, mediatico e megalomane – Nyawira è la leader del movimento clandestino per la Voce del Popolo, nonché personaggio trainante nel rapporto conflittuale con il potere supremo del Presidente.
Kamiti verrà spesso guidato dal carisma della donna nel prendere decisioni importanti e da lei incitato alla lotta per «cambiare il mondo». Il nemico ora non è più l’Impero britannico ma un regime feroce e «kleptocratico» sostenuto da forze internazionali, in particolare dai cosiddetti missionari della Banca Globale, nel complesso scenario del neo-colonialismo.
Il Presidente viene descritto come un personaggio che aspira all’immortalità, si sottopone a operazioni di chirurgia plastica, sopprime i nemici e non da ultimo costruisce un edificio mai realizzato prima, che possa arrivare fino alle porte del Paradiso, «in modo che il Presidente potesse rivolgersi quotidianamente a Dio per dargli il buongiorno o la buonasera..». L’idea del Grattaparadiso o Marcia verso il Paradiso (questi i nomi dati all’edificio) proviene dal Comitato per il Regalo di Compleanno, uno dei tanti organi presenti nel governo di Aburiria per soddisfare i piaceri del Presidente. Patentemente satirico, il tono slitta verso un notevole black humour, sebbene mai troppo cupo: non è la prima volta che Ngugi Wa Thiong’o si inoltra nella corruzione e nei meandri di un potere malato. Lo aveva già fatto in Il Diavolo in croce, il suo primo romanzo in lingua kikuyu, scritto su rotoli di carta igienica nel carcere di massima sicurezza in cui venne imprigionato nel 1977 per volere del vicepresidente Daniel arap Moi, poi capo di stato fino al 2002.

Dal periodo londinese
Dopo un anno di detenzione e la scarcerazione avvenuta anche grazie a una campagna internazionale coordinata da Amnesty International, Ngugi riprese a scrivere e decise di valersi solo della lingua madre kikuyu, in aperto contrasto con l’imperialismo linguistico dell’inglese. Per il regime keniota, tuttavia, lo scrittore non ha mai smesso di essere una voce sgradita e imbarazzante. Nel 1981 Ngugi pubblicò il diario della prigione, e l’anno successivo, in seguito a minacce e molestie subite dalla sua famiglia, scelse l’esilio e si trasferì prima in Gran Bretagna, poi negli Stati Uniti, dove tutt’ora vive e insegna.
Il mago dei corvi rievoca il periodo londinese alla fine degli anni Settanta, quando Ngugi lavorava alla campagna di liberazione di tanti prigionieri politici in Kenya. L’atmosfera di terrore e paranoia riguardo alla polizia segreta M5 ha le sue radici nelle istituzioni del governo di arap Moi. Epico nella forma e strabordante nella lunghezza, grottesco e satirico nel tono narrativo, Il mago dei corvi non è solo il racconto di un paese oppresso da un diabolico presidente, bensì il ritratto di una società aperta, multiculturale, per nulla gelosa dei propri confini. La forte presenza della popolazione indiana, di cui Kamiti è rappresentante, e ciò che egli racconta nei capitoli iniziali sulla storia dell’India, sulla permanenza di Gandhi in Sudafrica e le affinità storico-culturali fra l’Africa orientale e il Subcontinente indiano, rendono bene l’idea di un mondo molto soggetto a ibridazioni, contraddittorietà, diseguaglianze socio-economiche e razziali, in cui la relazione fra Kamiti e Nyawira sta a prefigurare una via possibile per il futuro, una via indirizzata a ciò che diceva il famoso saggio di Ngugi del 1993: Spostare il centro del mondo.
I personaggi, incluso il Presidente, parlano lo swahili, la lingua che Ngugi propone nel volume in questione come la nuova lingua franca di tutta l’Africa da opporre all’inglese, ed è interessante come Nyawira illustri a Kamiti la sua militanza politica e femminista citando solo scrittrici africane e indiane, note e meno note nel panorama internazionale, tra le quali Buchi Emecheta, Tsitsi Dangaremba, Arundhati Roy e Meena Alexander, come se Ngugi stesso volesse ribadire il loro rilievo nel canone delle letterature anglofone contemporanee.

Fra India e Africa
Il ponte fra India e Africa è stabilito anche dall’elemento magico, che nella narrazione di Ngugi è ironico, dissacrante, casuale. Inoltre, l’uso di presenze diaboliche e di fantasmi che si muovono in continuo andirivieni fra il mondo dei vivi e quello dei morti richiama tutta la mitologia africana con il suo intersecarsi fra ilmondo di qua e di quello di là, di cui sono esempi magistrali sia l’opera teatrale di Wole Soyinka, sia il romanzo del nigeriano Ben Okri, La strada della fame.
Leggendo Il mago dei corvi, viene anche spontaneo il rimando all’ironia con cui nei Figli della Mezzanotte Salman Rushdie descrive e utilizza le divinità del pantheon indù; o il sarcasmo nei confronti della politica che troviamo nell’acclamato romanzo di Aravind Adiga, La tigre bianca. Ulteriore elemento comune fra queste opere è la sperimentazione di forme dell’oralità, peculiarità che rende Il mago dei corvi, inizialmente pubblicato a puntate, una storia da raccontare giorno dopo giorno, all’angolo delle strade e nei bar, così come il personaggio chiamato A.G. racconta ciò che il Mago ha fatto di miracoloso per lui.

Potere della parola
Il racconto orale si mescola di continuo alla narrazione, i personaggi sono sempre intenti a produrre versioni diverse e improvvisate di quanto è loro appena successo, registrando le varie reazioni del pubblico, e dando luogo a un magma di storie nelle storie, intrecci avventurosi e amorosi, magie e sortilegi, affidati al potere mai abbastanza sorprendente della parola.