Finalmente l’americano James Still (1906-2001), decano della letteratura della regione degli Appalachi, approda in traduzione italiana, con due romanzi entrambi tradotti da Livio Crescenzi per l’editore Mattioli 1885. Il primo, da molti considerato il suo capolavoro, è Fiume di terra (pp. 215, e 17,00). Pubblicato nel 1940 a un anno di distanza da Furore di John Steinbeck (stesso editore), è una sorta di esemplare elevazione di una drammatica realtà locale a esperienza umana universale: una narrazione dura e senza fronzoli delle asperità del periodo della Grande Depressione. La natura pervade le pagine del libro mentre sembra che gli uomini abbiano difficoltà a rimanere a galla: se la fauna è attiva, gli umani invece attendono tempi migliori cercando di sopravvivere, come ombre sfocate troppo sfinite per reclamare un ruolo. Il ciclo naturale sembra essere un’alternativa, certo non facile ma meno alienante, al lavoro nelle miniere di carbone, alla vita nei campi-base, dove i minatori sono manodopera di nessun valore e le loro famiglie pagano il prezzo di un’esistenza coperta di polvere. La voce dell’autore – che scelse di passare l’esistenza e la carriera in un luogo remoto, come un outsider della letteratura – si leva contro l’industrializzazione che mette a repentaglio il modello tradizionale di vita della regione (Kentucky) e che rappresenta un instabile e negativo paradigma sociale. Quella di Still è una visione in antitesi con il pensiero dominante nella società americana degli anni quaranta: il punto di vista e lo sprone alla riflessione su tematiche scomode e su segmenti di popolazione marginali in un momento di preoccupazione per la situazione mondiale e la guerra, in un periodo di fiducia nel potere salvifico dell’industrializzazione.
La famiglia del giovane protagonista, attraverso gli occhi del quale la vicenda viene descritta, vive gli anni della crisi tra i continui trasferimenti legati alle possibilità di lavoro. La madre agogna la stabilità e una vita rurale all’insegna dell’individualità e dell’autarchia per far sopravvivere la propria famiglia; mentre il padre, minatore da generazioni, è lo stereotipo del brav’uomo che si lascia sfruttare dai parenti e si spacca la schiena per nutrire i figli. La desolazione di un uomo condannato a un’esistenza senza luce, senza colori e senza odori, come una formica che non spera più, che silenziosamente si mette in fila insieme alle altre per entrare nelle viscere della terra, sperando di poterne uscire viva. Non c’è pietismo alcuno però e la sofferenza, anche quella causata dalla morte di uno dei figli, è sorretta da una forte nozione di decoro e pudore, la dignità restando un valore assoluto e intrinseco.
Il narratore appartiene alla generazione successiva che desidera comprare un opuscolo di poesia – la letteratura è barlume d’innalzamento spirituale e sociale? –, che possiede in sé la speranza di una vita migliore e il desiderio inconscio di rialzare la testa. Vuole fare il medico dei cavalli, non il minatore, nonostante le predizioni degli adulti non lascino credere che ci sia davvero scelta. I bambini hanno in loro ancora la luce delle possibilità future, mentre gli uomini a testa china si augurano un destino migliore per loro, ma proprio all’ineluttabilità del destino alludono quando parlano del futuro, come se la condizione miserabile di schiavi del piccone fosse ereditaria ed eterna.
Completamente diverso è il tono dell’altro romanzo di Still tradotto da Mattioli 1885, lasciato incompiuto dallo scrittore e pubblicato postumo: Chinaberry (pp. 178, e 16,00), che ha attirato l’attenzione della critica e dei biografi per il mistero della sua genesi e un’evoluzione durata decenni. Molto della sua struttura, alcuni dettagli e sfumature che delineano i personaggi sarebbero infatti autobiografici: la tata Fanny, il legame con la natia Alabama e il padre veterinario, alcune lettere dell’autore firmate con il nome di uno dei protagonisti. Il titolo, scelto dal curatore, è il nome del ranch dove è prioritariamente ambientata la vicenda, ma anche il nome di una pianta esotica e al tempo stesso familiare che rende l’atmosfera poetica e rassicurante al primo impatto, risvegliando nel lettore le immagini di un luogo del cuore. Tuttavia, a un’analisi più attenta Chinaberry suggerisce il tema dello spaesamento, dell’essere estranei o stranieri in casa d’altri, proprio come questo bell’albero ornamentale, portato negli Stati Uniti tra la fine del XVIII secolo e la metà del XIX, che infestante si leva maestoso a discapito della flora locale.
Il romanzo fila via senza accadimenti, sconvolgimenti o colpi di scena. Il tempo e lo spazio sono evidentemente marcati: un mondo di coltivatori di cotone, braccianti senza scarpe, scuole e casalinghe di campagna, uomini a cavallo e indiani senza età che appartengono a un lontano passato e che in questa narrazione vengono cristallizzati senza retorica. Si tratta della storia di un giovane senza nome, che vive una stagione, una breve parentesi della sua formazione, in Texas, mandato dalla famiglia dell’Alabama per fare esperienza. Qui viene adottato temporaneamente dal ricco e sconsolato Anson Winters e dalla nuova bella moglie Lurie.
Diversamente da Fiume di terra, in Chinaberry i personaggi sono solide entità riconoscibili, ben plasmate e dotate di spessore (a eccezione dei Cretini, coppia di stolti burloni che fanno eco ai cugini Harl e Tibb Logan, gli scrocconi fastidiosi di Fiume di terra). Pervasiva è la presenza dell’uomo, abbondano i personaggi citati ma assenti perché morti, come il figlio di Winters la cui mancanza è il perno centrale della storia. La natura qui è marginale, anche se il panorama e il cielo sono un elemento essenziale alla narrazione, e lascia spazio ai racconti, alla riflessione e all’introspezione di una folla di individui che, diversamente dall’altro romanzo, non devono colmare bisogni primari e dunque possono permettersi d’indulgere maggiormente nella ponderazione delle profondità del pensiero e delle emozioni.