Che il nord della Siria sarebbe diventato, nel post-Aleppo, il nuovo campo di battaglia globale era prevedibile e ampiamente anticipato.

Ora l’abbattimento di un jet governativo siriano per mano della coalizione a guida Usa, domenica, in risposta a raid di Damasco vicino Raqqa (secondo Washington e le Forze Democratiche Siriane diretti contro i combattenti Sdf, colpiti anche da terra) e le immediate reazioni di Mosca aprono scenari di conflitto sempre più drammatici.

A guidarli è il revival bellico trumpiano che ha un chiaro obiettivo: arginare la presenza iraniana e consegnare la regione settentrionale siriana all’alleato turco.

Per farlo utilizza il soggetto più sacrificabile, le Ypg kurde, impegnate da anni contro lo Stato Islamico, capaci di unire intorno a sé etnie e confessioni diverse sotto l’ombrello delle Forze Democratiche Siriane e in grado di respingere con efficacia l’avanzata dell’Isis.

Ora sono entrate a Raqqa, mangiano terreno al «califfato» giorno dopo giorno, accettando – com’è normale che sia – il sostegno militare della potenza Usa.

Potrebbe dunque stupire il silenzio turco: al di là di alcune azioni contro le comunità di Rojava e le postazioni di Ypg e Pkk e delle condanne continue dell’appoggio statunitense al nemico kurdo, Ankara non sta effettivamente intervenendo pur avendo truppe dispiegate lungo l’Eufrate.

Non lo fa perché, viene da pensare, un accordo tra i due alleati Nato esiste già: nella frammentazione della Siria (anelata da anni dall’amministrazione Usa) che dovrebbe seguire alla guerra, Rojava – il nord della Siria – finirebbe sotto il controllo più o meno diretto della Turchia, immensa zona cuscinetto da collegare a quella prevista nel vicino Iraq.

I kurdi, coraggioso braccio armato, fautori in questi anni di conflitto di un modello confederale democratico funzionante, saranno l’agnello sacrificale sull’altare della ragione degli Stati.

La preda è ben più grossa, a Washington interessa impedire all’Iran di consolidare l’asse sciita – che ormai tiene dentro, più o meno direttamente, anche Baghdad – da Teheran alle coste siriane e libanesi. Un obiettivo ufficialmente dichiarato durante la visita di fine maggio del presidente Trump in Arabia Saudita.

Da questo punto di vista è disturbante l’avanzata governativa siriana a sud di Taqba, nella città di Resafa, strappata ieri all’Isis a Damasco e terreno di scontro nei giorni scorsi tra governo e Sdf.

In tale contesto l’abbattimento del jet siriano Su-22 sul cielo di Taqba, a 55 chilometri da Raqqa, non può essere etichettato – come fanno gli Usa – solo come reazione ad una minaccia al proprio personale e a quello dei partner della coalizione. È un atto militare e politico, come lo è stato il bombardamento (lungo il confine con l’Iraq) dei combattenti di Hezbollah vicino al-Tanf.

Altrettanto militare e altrettanto politica è la reazione di Mosca che ieri ha minacciato Washington definendo la distruzione del Su-22 «atto di aggressione»: d’ora in poi ogni caccia della coalizione che sorvolerà il nord della Siria a ovest dell’Eufrate (la zona di Raqqa e Deir Ezzor) sarà considerato «nemico» e dunque possibile bersaglio.

Il ministero della difesa russo ha poi annunciato la sospensione del coordinamento tra le due super potenze, messo in piedi per evitare incidenti in cielo o a terra.

Guerre a parole e con i fatti che ridicolizzano i nuovi round di negoziati annunciati sabato dal Palazzo di Vetro e ieri dal ministro degli esteri russo Lavrov: dal 10 luglio si riapre il tavolo di Astana (a cui prenderà parte l’inviato Onu per la Siria De Mistura), in contemporanea con quello di Ginevra sponsorizzato dalle Nazioni Unite.