Una vita da film, fatta più di cadute che di trionfi – seppure i titoli conquistati, italiani e internazionali siano tanti e importanti. Cadute da cui si è sempre rialzato, diventando un punto di riferimento per una città intera – Livorno, dove ha fondato la palestra popolare Spes Fortitude – e per i movimenti antagonisti di tutt’Italia. Lenny Bottai, 37enne pugile operaio – lo ha fatto negli anni in cui è stato squalificato per aver contestato un verdetto – superwelter ha però «bucato lo schermo» per le polemiche legate alla maglietta – con su scritto «No Jobs act» – con cui si è presentato sul ring della mitica Las Vegas, dove è stato sconfitto nella «semifinale» per il titolo mondiale Ibf dal fortissimo Jermall Charlo.

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Lenny, come vive questa notorietà arrivata più per la maglietta contro il governo Renzi che per i successi sportivi?

Mi fa ridere. È lo specchio di un paese senza cultura legato al gossip e alle notizie «domino»? Ho posto questa domanda a qualche giornalista che voleva intervistarmi e del resto la potrei anche girare a lei, ma non ho avuto risposta. Ho messo una maglia semplicemente per omaggiare tanti amici che sapevo, nonostante l’ora, erano in piedi per me. In America – pensa un po’ – è stata apprezzata e capita, qui ha fatto più notizia del fatto sportivo di essere arrivato, con la mia piccola storia, a Las Vegas su uno dei ring più importanti e famosi della storia del pugilato mondiale. Non faccio dello sport una tribuna politica, fosse stata la maglia di un partito X probabilmente non l’avreste vista. Ma il respiro sociale, l’appartenenza di classe, sono altra cosa. Nessuno dà voce alla gente comune, quella che suda e manda avanti il mondo, e io sono uno comune, perciò l’ho fatto. Dietro c’era scritto: «Lavoro, futuro e dignità per tutti!». Mi pare un concetto chiaro, nessuna tribuna politica.

Si definisce «campione del popolo» e parla ancora di classe operaia. Ci spiega perché, ci racconta la sua storia?

Non «mi» definisco così, sarebbe un po’ presuntuoso da parte mia, sono gli amici e gli stessi sostenitori del popolo che mi hanno onorato di questa definizione. Io la porto con orgoglio. Sono un ragazzo come tanti, che a 13 anni è entrato in palestra e a 21 dopo una squalifica ha smesso. Ha fatto come tanti, vita di strada, movimento e curva, e ovviamente l’operaio sfruttato. Poi a 28, con 98,5 chili addosso, ho deciso di rimettermi in gioco e ho ricominciato a boxare, sfidando pregiudizi e preconcetti. Passo dopo passo ce l’ho fatta a coronare il sogno di passare professionista, fondare una palestra popolare e vivere, anche se da precario, dello sport che amo. Poi sì, ho vinto qualche titolo importante, ma questo, nella storia, passa assolutamente in secondo piano. Il fatto che molti dicono che li rappresento deriva non dai risultati ma da tutto il resto.

Che cosa è per lei la boxe? Perché ha deciso anche di insegnarla?

Come quella che era, e da un certo punto di vista, che è. Normale sopravvivere schivando i guai e incamerando tanta rabbia per una società che ha abbandonato i valori e il senso di unità e partecipazione. Quando ho trovato la mia «via sportiva» ho imparato a convogliare queste energie in maniera positiva, e questo tento di fare anche come insegnante, perché questo percorso sia utile a molti ragazzi normali, di strada, come me.

La storia della boxe, da Muhammad Ali in giù, è piena di esempi di pugili impegnati nel sociale. È giusto quindi che un pugile come lei dica la sua sulla politica. Ci spiega che cosa non va nella riforma del lavoro?

Vede, quando cadiamo negli stereotipi facciamo confusione: Cassius Clay è stato un grande pugile, ma anche un abile venditore della sua immagine. A Las Vegas ho avuto il piacere di visitare la tomba di Sonny Liston, uno che contro Clay era considerato ’il negro tra i negri’ grazie al comportamento di questo, abile a sfruttare il sostegno dei movimenti bigotti e religiosi che volevano un nero dalla faccia pulita a rappresentarli. Uno tanto intelligente da perdere la medaglia olimpica e inventarsi di averla lanciata nel Mississippi per protesta contro il razzismo. Liston veniva da una piantagione di cotone, e dalla galera, e il suo cognome era realmente dovuto al padrone dei suoi genitori, eppure fu scansato da tutti anziché riabilitato e apprezzato. Forse leggere dei libri in merito e non fermarsi alle rappresentazioni hollywoodiane di Will Smith sarebbe bene. In merito al Jobs Act ovviamente la definitiva rimozione dell’articolo 18, che neppure il governo Berlusconi era riuscito a portare a termine, e la baggianata della tutela progressiva, sono i due aspetti che primeggiano. Far credere che dare la possibilità di licenziare crea lavoro è una buffonata, stiamo tornando nell’800, legittimiamo la fine della sicurezza per legalizzare il ricatto continuo.

Grazie all’esperienza americana è entrato in contatto con il mondo del professionismo esasperato. Che opinione se n’è fatto? È dovuto scendere a compromessi per arrivare a questo livello?

In America ho visto e vissuto una spettacolare gestione del mio sport, ovviamente dovuta anche, ma non solo, all’estremizzazione economica di tutto. Ma lì la boxe è anche grande passione popolare di tutte le etnie. Molte cose sono servite per imparare, altre le lascio dove sono. Las Vegas mi piace poco, ovviamente: eccessi, sprechi, che hanno un costo per l’umanità. Quel modo di vivere e gestire le cose idem. Ma non è un problema del «professionismo» che significa «sport di professione», semmai dell’estremo capitalismo che laggiù anima tutto. Anche le maggiori gestioni dilettantistiche, di puro non conservano nulla. Ovviamente eccetto firmare un contratto, per un incontro non ho dovuto accettare nessun compromesso, mia maglia ne è testimone.

Lo sport in Italia è ridotto male. Si parla solo di doping e di Roma 2024. Gli stadi sono vuoti, i campi di periferia pure. E il calcio si prende tutto lo spazio mediatico. Può essere ancora uno strumento di riscatto sociale?

Lo sport è strumento di azione sociale, condivisione di valori ed emozioni, cultura e partecipazione. Il tutto lontano dal bieco utilizzo per fini politici, termine riferito al peggio di questa definizione, quindi politica non dal basso ma dall’alto. Politica popolare intesa solo come azione diretta nelle strade e nei quartieri e non in meccanismi clientelari e spot elettorali conditi da carte di scambio e ritorni economici e mediatici vari. Chi fa sport dal basso, non chiede voti né catechizza, al contrario di chi lo utilizza dall’alto. Forse però questa chiave di lettura siamo in pochi ad averla. Io vedo lo sport come strumento di condivisione e partecipazione, accessibilità, costruzione di futuro, se questa è politica non lo so, ma non credo quelli che si fanno chiamare politici abbiano questi interessi quando progettano olimpiadi e grandi opere annesse. Poi magari mi sbaglio…

Lei è un simbolo e un riferimento per buona parte della sua città. Livorno era o è una città rossa? Come si vive con un sindaco grillino?

Perché quello di prima era un compagno? Un rosso? Allora dovrei essere tranquillo, al governo ora c’è il suo partito, un compagno come lui… Vorrei non diventare un opinionista da talk show, per una maglietta poi, ma penso che sia chiaro: queste elezioni sono state un segnale da sinistra alla sinistra che tale non è più da anni. Non credo nell’anti-ideologismo del M5S, tuttavia sappiamo è cosa disomogenea e diversa in ogni territorio, il compito adesso spetta a Nogarin. Per molti, votarlo al ballottaggio, è stato un mezzo di protesta.

Ha un tatuaggio con due martelli intrecciati sul petto. È ottimista per il futuro della sinistra in italia?

Benché non siano due martelli, e sono anni che lo sottolineo a tutti quelli che me lo chiedono, ma un martello e un calibro che hanno preciso riferimento, torno a dire che faccio il pugile e non l’opinionista. Non manifesto ottimismo ma appartenenza e cultura, come uomo. Come sportivo faccio la boxe, e in palestra non si fanno comizi ma sport, poi nella vita non posso esimermi dall’essere un uomo pensante che è cresciuto leggendo I dieci giorni che sconvolsero il mondo. Partendo dal presupposto della mia cultura, al momento non mi sento rappresentato, anche perché questa è storia e serve non dimenticarla ma guardare avanti. Orfano di Chávez, vedo pochi spiragli di rinascita del mio pensiero… Ma mai dire mai.