«C’è un ristorante dove è dagli anni settanta che vado sempre: quarant’anni fa lo gestivano i genitori, poi i figli e adesso ho conosciuto anche i nipoti»: siamo al cocktail offerto ai musicisti e agli addetti ai lavori dal Festival d’Automne al termine di una serata speciale, Chicago à Paris/Jazz à Chicago/50 ans de l’AACM, tenutasi nella cornice dello Châtelet in occasione del cinquantesimo compleanno della cruciale Association for the Advancement of Creative Musicians, e Henry Threadgill sceglie una chiave scherzosa per dire del profondo e continuativo legame dei musicisti dell’avanguardia di Chicago con la capitale francese.

«Se nel ’69 non fossimo venuti qui saremmo morti», ha detto invece subito prima di lui Wadada Leo Smith: sembra una battuta, ma Wadada ne è profondamente convinto, in un senso neanche tanto metaforico: e ricorda i nomi di Christopher Gaddy e di Charles Clark. Fra ’66 e ’68 Roscoe Mitchell, Muhal Richard Abrams, guru dell’AACM, e Anthony Braxton registrano a Chicago album fondanti della nuova prospettiva post-free dell’AACM. Ma la morte per malattia fra ’68 e ’69 a 25-26 anni di Gaddy e Clark, è una scossa: i giovani dell’AACM capiscono che la vita è breve e va vissuta, che degli album (poi considerati capolavori di una nuova «scuola») non basteranno a mettere in circolo delle nuove idee e a salvarli dalla condanna all’isolamento in una dimensione locale.

Chi rompe gli indugi e ha l’intuizione di saltare New York e puntare sull’Europa è una testa come Roscoe Mitchell. È in Francia nel ’69 che nasce la fortunata intestazione Art Ensemble of Chicago per il gruppo di Mitchell: nell’estate diversi degli uomini di punta dell’AACM sono a Parigi, e partecipano all’epocale serie di registrazioni della Byg Actuel.

Il clima è quello del dopo-maggio, ideale – come ricorda Wadada parlando allo Châtelet – per una musica con valenze sociali quale la loro. Parigi è il trampolino di lancio per una tendenza che caratterizzerà profondamente l’avanguardia degli anni settanta. Ma a Parigi e all’Europa i chicagoani riconoscono di essere stati non solo determinanti per il decollo, ma anche una sponda decisiva nei decenni successivi, per un’onda lunga della musica creativa dell’AACM, che con personaggi come Mitchell, Braxton, Smith, Threadgill è, come una volta di più si è potuto constatare allo Châtelet, nella prima linea della ricerca ancora oggi.

Col nome di Double-Up, la formazione di Threadgill qui comprendeva due sax alti, due pianoforti, violoncello, tuba e batteria: ma quale che sia il non convenzionale organico che Threadgill – qui non in veste di strumentista ma solo di direttore-compositore – di volta in volta sceglie, la sua cifra è sempre inconfondibile. Per lo più senza sviluppo «narrativo», con un ineffabile pulsare che ne fa qualcosa di sottilmente da ballo, la musica è come in una perenne sospensione dinamica, in una dimensione di attesa, ma piena di vita, di energia, di humour, di disponibilità.

I musicisti seguono delle partiture, ma Threadgill, in una forma di direzione non ortodossa, a tratti interviene con indicazioni, arrangiando in tempo reale. Qualche rischio di retorica, da un po’ di tempo, nei quartetti di Wadada, in quello scolpire il suo solismo alla tromba nel silenzio. Secco e bruciante, invece, in due implacabili soli al soprano e al sopranino Mitchell, in duo col batterista Mike Reed, generazione più giovane dell’AACM di cui è stato vicepresidente. Reed è intelligente, fluido, dinamico, e non è proprio colpa sua se quasi non ci si accorge più di lui mentre Mitchell, non pago di mezzo secolo di improvvisazione, non dà tregua col sopranino, ironico, beffardo, ipnotico.