È una questione di corpi. Lo è per gli afroamericani ammazzati per strada negli Usa come per i migranti costretti a dormire nei parcheggi delle città italiane. Il corpo è l’affermazione irriducibile dell’essere umano. Ingombrante terreno di conflitti e produttore di opportunità.
Anche il Jazz è una questione di corpi. Ce lo ha ricordato, forte e chiaro, il tenorsassofonista James Brandon Lewis con il suo trio completato dal basso elettrico di Luke Steward e dalla batteria di Warren Trae Cudrup III.

Un concerto di selvaggia potenza sonica e di travolgente fisicità. Musica che impone il primato del corpo nel movimento, nel ballo, nella circolarità del rapporto tra performer e pubblico. Rock, hip hop, free jazz, dub e afro tutti mescolati. Non si tratta di una ricapitolazione ma di un nuovo linguaggio: ultrajazz. Jazz come corpi e menti che danzano. E che si esibiscono in salti, capriole e acrobazie come nel concerto-sarabanda della Sun Ra Arkestra condotta dal novantatreenne Marshall Allen. Costumi sbarluccicanti, immaginario fumettistico, arte del Vaudeville, retrofuturismo. Grandi classici del Maestro di Birmingham e Swing d’anteguerra.

La ventesima edizione di Jazz & Wine of Peace di Cormons, in Friuli Venezia Giulia, candida questo Festival transfrontaliero a osservatorio privilegiato del jazz contemporaneo sul territorio nazionale. Poca musica di repertorio e comunque esteticamente orientata: il Rahsaan Roland Kirk del trio di Marco Colonna e il Don Cherry del Multikulti di Cristiano Calcagnile. Entrambe vitalissimi e per nulla didascalici omaggi a due grandi irregolari. Molto jazz italiano tra cui una menzione speciale per il Simone Graziano Frontal ascoltato in quartetto con il leader al fender rhodes, Dan Kinzelman al sax tenore, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Stefano Tamborrino alla batteria. Formazione compatta, musica fresca e mobilissima.

Nella settimana della manifestazione 29 concerti in cantine, ville, castelli e nel Teatro comunale impegnano il pubblico in continui spostamenti nel Collio friulano e sloveno. Dalla commovente perfomance mattutina nell’Abbazia di Rosazzo del trio d’archi con Silvia Bolognesi, Mazz Swift e Tomeka Reid alla rilettura molto «aperta» del genere Americana del quintetto Pipe Dream con il violoncellista Hank Roberts. Poi la sera nel Teatro Comunale di Cormons: Steve Coleman, Enrico Rava, David Murray e Hamid Drake, ma soprattutto Craig Taborn. Nato nel 1970 a Minneapolis si è imposto dopo una lunga ma costante crescita come una delle voci più autorevoli del jazz contemporaneo. Anzi, azzardiamo, il pianista è l’uomo nuovo del jazz odierno.

Fresco dell’uscita del cd Daylight Ghosts (ECM) ha incantato con il suo quartetto composto da Chris Speed al sax tenore e clarinetto, Chris Lightclap a contrabbasso e basso elettrico e Dave King alla batteria. Possiamo definirlo come l’esempio più limpido di musicista di sintesi per la capacità di contenere e rielaborare tutta la musica del ’900 e oltre. Jazz ed elettronica, musica minimalista e ambient. Costruisce impalcature sonore di geometrica perfezione. Taborn cerca e trova musica nuova. Inaudita. Lo ascolti e non sai mai dove sei. Non a caso nel bis propone una versione di Love In Outer Space del profeta di Saturno Sun Ra.