Non ci avevamo mai pensato: ma il lupo che si mangia l’agnello nella fiaba di Fedro è una vittima. Si lamenta di offese ricevute. Lo fa dall’alto, da una posizione di potere (superior stabat lupus). Oggi, sostiene Daniele Giglioli in Critica della vittima (Nottetempo, pp. 128, euro 12,00), sono tanti quelli che hanno imparato la lezione: lupi che non si celano più sotto la veste dell’agnello secondo l’antica immagine dei moralisti cristiani, ma per mangiarselo prendono la scorciatoia del vittimismo, più comoda e anche più redditizia in termini di consenso sociale. Sia chiaro: non si tratta qui della realtà dell’esser vittima – realtà vasta come il mondo intero. Né si tratta dell’impegno di chi cerca di prendere parte per loro, accanto a loro. Qui si parla dello sfruttamento del vittimismo e si mira alla critica dell’ideologia vittimaria come «falsa coscienza», strumento di legittimazione delle ingiustizie e delle violenze.

Sappiamo bene come la galassia ideologica della finalità «umanitaria» abbia coperto e legittimato quasi tutte le ultime guerre condotte nel mondo restando alle vittime una sola parte da recitare nella commedia: quella di massa indistinta senza volto e senza voce che soffrono sofferenze vere e in cambio di un soccorso esibito più che veramente dato, perdono ogni diritto a dire la loro, a deliberare su ciò che è giusto. Ma la proposta di Giglioli elaborata sulla base del dossier indicato nelle dense pagine dell’appendice, non si limita a questa facile constatazione. L’ideologia vittimaria di cui analizza le componenti è una costruzione complessa. Si compone di ingredienti come l’ossessione identitaria in opposizione al mutamento, il culto della memoria in opposizione alla storia. È l’efficace supporto del populismo: il leader che si atteggia a vittima instaura con la massa un rapporto fondato sul risentimento contro un nemico esterno, di volta in volta l’ebreo, lo zingaro, l’immigrato, il comunista e via elencando. Ha una inconfondibile coloritura affettiva. Si nutre dell’immaginario del dolore e della morte. Esalta l’eroismo del patire, deprime la volontà di agire. Coltiva l’ossessione della Shoah e del fantasma di Hitler come metro di misura e paradigma finale obbligatorio di ogni discorso sul mondo. Qui la storia è inattuale, al suo posto si insedia la memoria. Memoria significa soggettività e sofferenza. Da qui il moltiplicarsi delle giornate della memoria, con l’invito a sentirsi in debito di sofferenza per le vittime, quelle della Shoah, quelle delle foibe, quelle delle mafie, quelle del terrorismo interno e internazionale. Nel dolore ritualizzato del ricordare al silenzio delle vere vittime si sostituisce la grancassa delle retoriche commemorative: chi parla in nome delle vittime si appropria della memoria, ne diventa l’eroe sofferente. Accade qui una sostituzione di soggetti perché nella prosopopea della vittima il parlante è un testimone a nome d’altri, un presentificatore della sofferenza che ci fu.

L’osservazione di Giglioli è amara e pungente quanto esatta. Chiunque abbia assistito o partecipato ai riti delle giornate della memoria sa quanto sia difficile rompere la cornice di un rito di compianto funebre obbligatorio da subire compunti come una parentesi che renderà più prezioso il ritorno al godimento dell’esser vivi e più rapida la smemoratezza. A fronte delle tante polemiche più o meno oziose e ripetitive se si debbano o non si debbano celebrare le giornate della memoria, le pagine di Giglioli toccano il fondamento dell’ideologia che le ha inventate e le sottende. La retorica delle giornate della memoria obbliga per sua natura alla sovrapposizione di tempi e di punti di vista, annulla la distanza temporale e cancella la prospettiva storica.

Il prezzo che si paga è alto: il testimoniare trasmette non la conoscenza dell’accaduto nei suoi caratteri specifici ma immobilizza il tempo storico e comunica un’idea della storia e del mondo come luogo dove non resta che far torto o patirlo: è la sconsolata filosofia del Manzoni giansenista dell’Adelchi quella che viene in mente a Giglioli, o almeno quella del Renzo Tramaglino contento di essere riparato nel privato, sfuggendo al rumore e alla confusione insensata della rivolta popolare.

Il paradigma vittimario ricostruito da Daniele Giglioli possiede i caratteri di quello che potremmo definire un fatto sociale totale, prendendo in prestito la definizione di Marcel Mauss: un misto di riti e miti dove è possibile individuare l’espressione dei rapporti di forza e delle tendenze profonde del nostro tempo. Un tempo che a Giglioli appare come radicalmente controrivoluzionario se rivoluzione significa orientarsi al mutamento, realizzare l’invito kantiano al coraggio di sapere, avere fiducia nell’azione consapevole per cambiare il mondo. Oggi al contrario prevale il senso di colpa e il peso del debito, non solo quello delle finanze pubbliche e private ma anche quello della storia. Il post-moderno volta le spalle alla modernità, al Novecento che è condannato in blocco.

Il Novecento è per i vittimisti il mattatoio, il secolo delle stragi, il buco nero della storia. Per raccontarlo si è inventato un genere insolito, i libri neri: si è cominciato con quello del comunismo e non si è più smesso.

Nei suoi rapidi e spesso fulminanti attraversamenti di testi e pratiche Daniele Giglioli porta il lettore più distratto e diffidente a scoprire nelle sue analisi non poche ragioni di consenso. Per lo scrivente, lettore soprattutto di libri di storia e sempre più colpito dall’inattualità crescente della prospettiva storica nel diffuso e comune sentire, il consenso è soprattutto per l’aver individuato l’aspetto fissista e astorico del paradigma vittimario. Oggi l’orizzonte sociale sembra quello di una notte polare, un tempo a una sola dimensione, un cupo presente che dura senza mutamento cancellando il futuro e inabissando il passato in un museo degli orrori. Ben si può capire in questa prospettiva la legittimazione di poteri che non tollerano alternative o mutamenti. L’unica prospettiva possibile quando si cancella il tempo umano del mutamento storico è quella del nesso fra un passato come immenso cimitero di vittime senza voce e un futuro di estinzione apocalittica delle specie viventi. La riprova è facile.

Seguendo su internet il filo della compassione per le vittime ci si imbatte in un Centro per la storia dell’universo in California : il suo fondatore, il prof. Brian Swimme, proclama la futura estinzione di massa delle specie viventi e dichiara di voler diffondere nel mondo una «compassione globale». Non è la prima volta che il profetismo apocalittico compare nella storia: ma se nel passato ha avuto spesso una forza dirompente generatrice di grandi rivoluzioni, oggi l’ideologia vittimaria corrente gli conferisce il sapore di una richiesta di conservazione, di immobilità e immutabilità dei rapporti di forza che fa a pugni con l’esigenza vitale di correggere le storture della società per far andare avanti la storia. Del resto non mancano precedenti modelli storici di ricorso alla esibizione della sofferenza e della compassione per le vittime come potente mezzo per legittimare il potere e bloccare ogni pulsione rivoluzionaria. Si pensi al caso, familiare allo scrivente, di quei confratelli delle conforterie cristiane attive nei dintorni del patibolo che per secoli si dedicarono a trasformare banditi, assassini, ribelli politici, bestemmiatori ed eretici in vittime pentite e capaci per loro tramite di far lacrimare gli spettatori. Come i «victimarii» dell’antica Roma col loro mazzuolo per stordire le bestie del sacrificio pagano, la loro opera valse a cancellare nelle loro menti e in quelle degli spettatori il ricordo dei misfatti che avrebbero altrimenti scatenato l’odio e il furore della folla.