Nell’agosto del 1913 il New York Times pubblicò una notizia in apparenza irrilevante, che però venne commentata da un capo all’altro degli Stati Uniti: confuso tra la folla arringata da una suffragetta, il marito dell’oratrice la interruppe con un grido prepotente: «Mary, vieni a casa e preparami la cena! Il tuo posto è lì, non all’angolo di una strada a fare discorsi!». Benché spalleggiato da altre voci maschili che strepitavano: «Torna da tuo marito e dai tuoi figli! Quest’uomo non cena da sei mesi!», lo scatenato coniuge passò la notte in guardina e fu ovviamente appoggiato e commiserato dagli anti-suffragio. Ma anche le suffragette criticarono la moglie, che, in contrasto con le nuove strategie adottate dal movimento, aveva permesso alla causa di interferire con i suoi doveri domestici.

Considerate pericolose virago che minacciavano la gerarchia dei sessi e la famiglia, base indiscussa dalla società, le suffragette avevano infatti deciso di imporre un’altra narrazione, esibendo abilità casalinghe destinate a rassicurare l’opinione pubblica e a conquistare nuove adepte alla loro battaglia, iniziata ufficialmente nel 1848 con la convention di Seneca Falls. Oltre alle dimostrazioni, alla disobbedienza civile, ai picchetti, agli scioperi della fame («importati» dalla combattiva Alice Paul, vicina alle suffragette inglesi e come loro sottoposta ad alimentazione forzata), dopo la guerra di secessione anche i libri di cucina, le fiere con bancarelle cariche di manicaretti e le gare di cottura divennero uno strumento di lotta, rafforzato dall’alleanza con il movimento per l’economia domestica, riunito a convegno per la prima volta nel 1899 e deciso a fare della casalinga una professionista capace di governare la casa in modo «scientifico».

NON C’È DA STUPIRSI, quindi, se tra gli innumerevoli libri proposti quest’anno dall’editoria americana per celebrare il centesimo anniversario del voto alle donne, ce ne sono alcuni dedicati alla «cucina delle suffragette», che vanno ad aggiungersi a un già consistente corpus di saggi e articoli sull’ argomento. Da raccomandare, tra tutti, è il nuovissimo All Stirred Up: Suffrage Cookbooks, Food, and the Battle for Women’s Right to Vote (Pegasus Book, pp. 369) un testo riccamente illustrato la cui autrice è Laura Kumin, ex avvocata ormai consacrata alla gastronomia, che, oltre a presentare una cinquantina di ricette d’epoca, le inscrive nel loro contesto. Kumin ha cercato e individuato tutti i libri di cucina delle suffragette arrivati fino a noi: ne restano solamente otto, apparsi tra il 1886 e il 1916 (ma altri potrebbero riemergere da vecchi bauli o fondi di biblioteca), diversi fra loro almeno quanto le anime del movimento, a lungo segnato da significative differenze locali, oltre che da scissioni e contrapposizioni.

I più famosi, ristampati ancora oggi, sono il The Woman Suffrage Cookbook del 1886, a cura di Hattie A. Burr, presentato durante una storica giornata al Music Hall di Boston, cui fu presente anche Louise May Alcott, e il The Suffrage Cook Book, compilato da Laura O. Kleber nel 1915. Alcuni erano esili e anonimi opuscoli, come Little Tastes of Enfranchisement, realizzato nel 1915 da un gruppo californiano, mentre altri, elegantemente rilegati, contavano centinaia di pagine, come il Washington Women’s Cookbook, e ogni raccolta era frutto di un lavoro collettivo, coordinato da una compilatrice (i contributi portavano spesso il nome delle donne che li avevano forniti e perfino di qualche uomo: Jack London, per esempio, spiegava come preparare l’anatra arrosto).

I VOLUMI, sottolinea Kumin, servivano sia a raccogliere fondi per la causa che a portare il messaggio suffragista a donne scettiche o addirittura ostili, perché le ricette si alternavano a citazioni, slogan, appelli, riferimenti al diritto di voto e note satiriche e umoristiche: gli ingredienti della «Torta per il marito dubbioso di una suffragetta», per esempio, includevano «mezzo litro di latte dell’umana gentilezza e otto motivi per cui le donne dovrebbero votare», mentre il ragù preferito dagli anti-suffragio si componeva di «verità calpestate, un buon pugno di ingiustizie e una manciata di stupidaggini».

NONOSTANTE il richiamo alle tradizionali virtù femminili, tra le collaboratrici erano numerose le donne impegnate in professioni considerate appannaggio degli uomini, come Anna Howard Shaw, medico che per decenni convisse apertamente con la sua compagna e che non aveva voglia di giocare alla casalinga perfetta: il suo contributo a The Suffrage Cook Book furono le istruzioni «per piantare un chiodo, poiché si ritiene che le donne non ne siano capaci», e per confezionare un panino con bacon e formaggio, non senza specificare che lei non ne aveva mai preparato uno.

Oltre ai messaggi politici, alle raccomandazioni sull’igiene e la sicurezza alimentare e alle ricette per il lievito, per il potage di aragosta, per il pane integrale o per la torta con panna e lamponi raccomandata da Alice B. Stockham (la quinta statunitense a laurearsi in medicina, nonché una sostenitrice della masturbazione, «ottima per la salute»), i libri di cucina delle suffragette, che coprono un arco di circa trent’anni, offrono anche una testimonianza sui cambiamenti avviati da industria e tecnologia nel sistema alimentare: gli americani consumavano sempre più spesso carni trasportate in vagoni refrigerati, cibi in scatola e lievito chimico, e avevano accesso a nuovi attrezzi da cucina che troviamo citati più di una volta nei suffrage cook books. Grazie a una maggiore disponibilità di ingredienti non si sottraevano, inoltre, all’influsso di altre gastronomie, anche se sciaguratamente reinterpretate (una riprovevole ricetta dei «maccheroni all’italiana» prevede la bollitura della pasta nel latte annacquato e un condimento a base di pomodori in scatola addensati con amido di mais).

Viene così disegnata una sorta di biografia alimentare collettiva e in perpetua evoluzione, mentre si delinea il ritratto di una superdonna efficientissima, capace di svolgere alla perfezione le faccende di casa, di nutrire la famiglia nel modo giusto e di occuparsi allo stesso tempo di questioni nazionali.
Da un attivismo che affermava l’uguaglianza tra i sessi si era dunque passati a un’ostentata adesione alle consuete aspettative di genere, per dimostrare che l’intervento diretto delle donne avrebbe migliorato la politica ed elevato la moralità della sfera pubblica (non a caso il colore-simbolo delle suffragette fu il bianco, che indicava la purezza e che, particolare non trascurabile, risaltava adeguatamente in fotografia, contro le tinte lugubri degli abiti maschili).

ESAMINANDO LE RICETTE, infine, non si può fare a meno di notare l’eloquente e clamorosa assenza delle donne nere, estromesse da un movimento che le suffragette bianche, provenienti per lo più dalla classe media e alta, avevano modellato su di sé, rinunciando a ogni forma di inclusione e sorellanza, tanto per il timore di perdere l’appoggio delle donne del Sud e dei conservatori, quanto per un irreparabile pregiudizio razzista cui non aveva posto rimedio nemmeno l’alleanza pre-guerra civile con gli abolizionisti.

Confluite in organizzazioni autonome che non si limitavano a chiedere il voto, ma combattevano per la sicurezza e la libertà dei neri, le afroamericane furono invitate a lasciar perdere le richieste di partecipazione e tenute lontane da convegni e manifestazioni come la grande parata suffragista organizzata nel 1913 a Washington (ma la leader nera Ida B. Wells si presentò ugualmente con il suo gruppo, subito relegato in coda). Un chiaro presagio della illegittima e prolungata esclusione dal voto che, come Kumin non manca di ricordare, fu solo in parte sanata dal Voting Rights Act del 1965.
Oggi le donne nere, all’epoca tagliate fuori perfino dai libri di cucina che propagandavano il suffragio femminile, quel voto se lo stanno riprendendo, mentre Black Lives Matter dilaga nelle strade degli Stati Uniti e Kamala Harris approda alla Casa Bianca.