Ogni anno al festival Bergamo Jazz si cerca di assegnare la palma del migliore in campo. Questa volta è piuttosto difficile. Nessuno fa gridare al miracolo o, comunque, desta entusiasmo strabordante, come fu nel 2013 per Peter Evans. Ma Ken Vandermark, clarinettista e sassofonista, in quartetto con Russ Johnson (tromba), Fred Lonberg-Holm (violoncello) e Timothy Daisy (batteria), tutti americani, convince e commuove (23 marzo). Già la sua introduzione in solitudine al concerto è di marca free improvisation purissima. Però è ardimentosa. Niente maniera, niente cliché, e si sa che nella free improvisation (non solo lì, peraltro) succede. Nel primo brano del gruppo e poi sempre in seguito abbiamo modo di osservare che il trombettista ha una diversa formazione, tende assai di più a muoversi in un ambito post-davisiano prudente. Saggio, sta in ombra come solista, interviene con magnifica sensibilità a disegnare il quadro complessivo.

Violoncellista e batterista usano un battito frastagliato, il primo dei due ha parti assai ampie di improvvisazione libera in linguaggio avant-garde estremo. Molto buone. Vandermark predilige le frasi spezzate, il grido rabbioso che incrocia le melodie vaganti degli altri. Spesso conduce l’ensemble sulle barricate. Ma il guerrigliero che cerca la tenerezza (do you remember Che Guevara?) la trova con facilità se è un guerrigliero sapiente. Vandermark la trova in un brano medium tempo scandito dal batterista alla maniera classica. Dolce-profondo e struggente con parecchio blues che gira intorno.

Come promette bene al Teatro Donizetti (21/3) l’avvio del set di Myra Melford, pianista e compositrice, tra le figure più influenti nel campo dell’avanguardia jazzistica, a capo di un quintetto che intende rendere omaggio all’opera dello scrittore Eduardo Galeano, in particolare alla sua Memoria di fuoco. È subito musica ultra-free da camera. Suoni brevissimi diffusi ma ben assemblati, un’idea di frammenti di sapere musicale messi in comune con l’apporto di ogni singolarità. Un’idea, certo. Non proprio una realizzazione compiuta dell’idea. Perché si avverte, pur nella felice e curiosa fascia di polifonie che viene irradiata, un qualcosa di rigido, un qualcosa di molto preordinato, di studiato a tavolino. Ma la musica è attraente e ardita e mantiene l’impronta di una dissociazione organizzata. Il puntillismo è in cattedra.

Myra Melford foto di Gianfranco Rota
Myra Melford foto di Gianfranco Rota

Va ancora meglio quando questo andamento cameristico «all’europea» viene contraddetto armoniosamente dall’entrata di ritmi ondeggianti che stanno tra il funky e il latino. Il chitarrista Liberty Ellman e il bassista elettrico Stomu Takeishi, due colonne dei recenti gruppi guidati dal sommo Henry Threadgill, sono gli artefici (o gli esecutori? la domanda ha una sua ragione) di questa bella svolta del brano. Insieme al batterista Ted Poor. Appare, poi, una sorta di tema strutturato, una melodia che sembra accomunare la memoria cool e la memoria della libera atonalità. Al tema seguono variazioni, o aggiunte, o cadenze, fatte di «ostinati».

Questo è anche il momento di un’altra entrata importante: quella del trombettista Ron Miles. Che si rivela ben presto il solista principe della performance. L’unico vero improvvisatore in un contesto dove tutto è rigorosamente scritto. Miles è un prelibato melodista. La sua sonorità si alimenta di hard-bop ma il suo fraseggio ha una fluidità dolce ed è frutto di una ricchissima fantasia. In un certo punto aleggia persino il fantasma di Chet Baker. Musicista notevolissimo. Il concerto di Melford prosegue e sempre più il carattere di esercizio di composizione un po’ schematico e ingenuo si accentua. Peccato: perché non mancano le delizie di alcuni passaggi, comprese poche sortite in solo, avant-garde, della leader.

Di Joshua Redman (21/3), sassofonista tenore come il padre, l’eccelso Dewey, si vorrebbe dire poco: sostanzialmente che il suo scorrevole discorso solistico è segnato dalla confusione tra il concetto di semplicità e quello di semplicismo. Ma ha due frecce nel suo arco: la sonorità/pronuncia nel registro grave, tenebrosa/appassionata, e i tocchi commoventi di spiritual che regala a un suo tema originale e poi alla magnifica versione della beatlesiana Le it be. Lo assecondano buoni musicisti, come lui votati alla seducente ovvietà: il pianista Aaron Goldberg, il contrabbassista Reuben Rogers, il batterista Greg Hutchinson.

Nella sessione pomeridiana del festival, quella più «da laboratorio», all’Auditorium di Piazza Libertà, il trombettista americano Nate Wooley (22/3) tradisce un po’ le attese. E il ricordo di chi lo aveva ascoltato nelle grandi orchestre sperimentali di Assif Tsahar, nei gruppi di Braxton e Zorn. A capo di un organico che comprende clarinetto basso (Josh Sinton), vibrafono (Matt Moran), contrabbasso (Eivind Opsvik) e batteria (Harris Eisenstadt) mostra dapprima una sonorità aspra, qualche bel passaggio solistico accanito intorno a un nucleo di note «senza gravità», cioè mostra dapprima il suo chiaro lato free, poi sonorità (sua e dei partner), fraseggio e tipo di scrittura dei temi (suoi e dei partner) sembrano prendere a prestito di più l’idioma dei tempi del cool-jazz. Una miscela, questa tra cool e free, che è assai frequente nel jazz odierno, è quasi una tendenza. Ma Wooley rimane in un zona incerta dell’espressione: gli manca lo scatto del fuoriclasse.

Al Donizetti (22/3) Gianluca Petrella presenta il suo collaudato show intitolato Il bidone. Una lunga carrellata in un unico movimento sui motivi noti e meno noti di Nino Rota. Conferma in un purtroppo breve assolo al suo strumento, il trombone, di essere un musicista difficilmente insidiabile al vertice italiano del jazz, come afferma spesso Enrico Rava, direttore artistico del festival, ma si fa prendere dalla smania di mettere in piedi una sorta di commedia musicale. Il gruppo – un grande Giovanni Guidi al piano, Beppe Scardino al sax baritono, Joe Rehmer al contrabbasso, Cristiano Calcagnile alla batteria, più il vocalista John De Leo, spesso infelice col suo abuso del grottesco nello scat – parte con frenetiche avvincenti sequenze di «informale» improvvisazione collettiva (organizzata, controllata) e si inoltra pian piano, sempre procedendo per musica d’assieme, nelle citazioni rotiane/felliniane e nelle relative variazioni, anche brillanti. Petrella: un radicale che un po’ vuol fare il piacione.

L’incontro, quasi una jam, di due trombettisti di gran nome, il sessantottenne Tom Harrell e il cinquantunenne Dave Douglas (22/3) sarebbe una gran noia se non fosse per le sortite in assolo e i temi di Harrell. Jazzman dell’età di mezzo del «moderno», uomo afflitto da una malattia psico-somatica che lo rende quasi disabile, incanta con la sua filosofia musicale dell’intimismo acuto, vissuto e vivente. Il grande maestro Michel Portal con i suoi clarinetti si accompagna a un valente giovane fisarmonicista, Vincent Peirani, per un set di musica da boîte de nuit parecchio folk(23/3). Quasi una patacca il concerto del percussionista indiano Trilok Gurtu (23/3). Ma la sua band ospita un delicato trombettista norvegese, Mathias Eick, che echeggia Davis e Jon Hassell. Serve a indorare la pillola.