Dopo aver demolito l’accordo nucleare del luglio 2015, raggiunto dopo intense trattative durate anni e quindi con un alto costo diplomatico, il presidente statunitense vorrebbe far tornare gli iraniani al tavolo dei negoziati per spuntare migliori condizioni senza peraltro offrire qualcosa in cambio.

Nel frattempo, a inizio agosto Trump ha dato avvio al primo round di nuove sanzioni contro la Repubblica islamica per colpire le transazioni in dollari, l’oro, il settore dell’auto (francesi e tedeschi stanno chiudendo gli stabilimenti), alcune materie prime, i pistacchi e i tappeti.

È una cannonata che fa tanto rumore e spaventa. Resta da vedere quali saranno i danni visto che il rial è già ai minimi storici e a Teheran il costo della vita è sempre più alto. In questi decenni gli iraniani hanno trovato il modo per diversificare l’economia guardando a Oriente.

La parola d’ordine è resilienza, il suo simbolo è la guerra contro l’Iraq, di cui il 20 agosto ricorrono i trent’anni dal cessate il fuoco dopo otto di conflitto. E alle sanzioni gli iraniani sono abituati: comprano merci made in Usa di contrabbando o triangolano con gli Emirati e l’Azerbaigian.

A rimetterci, a causa delle sanzioni, saranno le imprese europee che hanno contratti in Iran e i consumatori americani che dovranno fare a meno dei pistacchi e dei tappeti persiani: metterli al bando non serve, se n’era accorta Madeleine Albright che li aveva sdoganati.

Il secondo round di sanzioni contro l’Iran dovrebbe scattare il 4 novembre e prendere di mira banche e petrolio, il che vuol dire che l’economia globale dovrà fare a meno dei due milioni di barili di greggio che ogni giorno Teheran immette sui mercati.

Detto questo, l’amministrazione americana vorrebbe consentire a Cina, Turchia e India di mantenere in essere le importazioni dall’Iran, limitandole. Vuol dire che non si tratterà di un vero e proprio embargo petrolifero e, di conseguenza, l’impatto sarà limitato.

Per questo, ma non solo, l’impressione è che le sanzioni contro l’Iran facciano tanto rumore ma non metteranno in ginocchio ayatollah e pasdaran.

Per funzionare, devono soddisfare tre criteri: devono essere imposte da una coalizione di Stati (e non solo da Washington), deve esserci una precisa volontà politica e si deve in mano qualcosa da dare nel caso in cui la controparte decida di venire a patti. In assenza di questi tre prerequisiti, le sanzioni non funzionano.

Detto questo, Trump sta facendo delle sanzioni il perno della sua politica estera: oltre a Teheran, sono presi di mira il regime di Pyongyang, la Turchia e la Russia. Nel caso di Mosca, il motivo è l’interferenza nelle elezioni americane ma, a differenza di quelle imposte per l’invasione dell’Ucraina in cui Washington aveva il sostegno di Bruxelles, in questo caso gli americani faranno da soli.

Se l’Unione Europea si tira indietro, è perché ha parecchio da perdere. Nel caso dell’Italia, con 5 miliardi di euro interscambio siamo il primo partner commerciale dell’Iran, davanti a Francia e Germania: le sanzioni a Teheran costeranno quasi due miliardi di export e bloccheranno 27 miliardi di dollari di commesse.

L’amministrazione Trump elargisce sanzioni a destra e manca, ma tutto tace sul fronte di Riyadh, sebbene i sauditi stiano compiendo le peggiori nefandezze in Yemen, dove la guerra ha fatto oltre 10mila morti e provocato – secondo le Nazioni Unite – la peggiore crisi umanitaria.

Giovedì, la coalizione guidata da Riyadh ha fatto saltare in aria un bus che trasportava adulti e bambini di ritorno da una gita: il conducente si era fermato a comprare una bibita al mercato di Dayhan, nella regione settentrionale di Saada. Decine di morti, decine di feriti.

La Croce Rossa denuncia l’aggressione, perché nei conflitti i civili non devono essere presi di mira. I sauditi definiscono invece quell’operazione legittima perché sul bus ci sarebbe stato qualcuno che mercoledì aveva tirato un missile contro la città saudita di Jizan facendo un morto e dei feriti.

Se i sauditi osano tanto è perché sanno di avere le spalle coperte da quei guerrafondai degli americani. L’importante è che non tutti i Paesi siano allineati con il presidente statunitense perché – come scrisse Burke – la sola cosa necessaria affinché il male trionfi è che gli uomini buoni non facciano nulla. È quindi buona cosa se l’Unione europea prende le distanze da Trump e dalla sua pericolosa combriccola.