«È una via per l’inferno». Non usa mezzi termini il premier ceco Andrej Babiš commentando sul suo profilo Twitter la lettera inviata dal premier italiano Giuseppe Conte che esortava ad accogliere una parte dei migranti e rifugiati arrivati a Pozzalo. «Il nostro Paese non accetterà alcun rifugiato. Al Consiglio europeo siamo riusciti a far approvare il principio di volontarietà e ci atterremo a esso», ha continuato il premier ceco, nella cui visione il contributo volontario equivale, evidentemente, a contributo zero.

LA POSIZIONE di Babiš non è affatto una sorpresa. Da tempo il miliardario populista predica la tesi, per cui la politica di salvataggio e accoglienza nel Mediterraneo sarebbe un potente fattore d’attrattività per i migranti e soprattutto per gli scafisti. Sulla stessa linea d’onda di Babiš anche i suoi alleati di governo, i socialdemocratici della Ssd e i comunisti di Ksm. «La crisi migratoria non verrà risolta con l’apertura delle frontiere a un flusso incontrollato», ha ribadito il ministro degli esteri e capo della Ssd, Jan Hamácek che ha confermato che la Repubblica Ceca è disposta a inviare in Italia i suoi poliziotti e a partecipare con un contingente a un’eventuale missione Frontex a guida italiana sul suolo libico. D’altronde già il precedente governo, a guida socialdemocratica e con Babiš vicepremier, si vantava di essere tra i donatori in denaro più generosi alla Guardia costiera libica. Dei rifugiati previsti dalle quote di ricollocamento ne sono arrivati solo dodici e la Repubblica Ceca dovrà per questo giustificarsi davanti alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

OLTRE A BABIŠ si è fatta sentire anche l’Ungheria di Orbán. I toni sono meno accesi ma la sostanza è la medesima. Dinnanzi a un moto di simpatia peloso, «sappiamo anche noi come sia difficile difendere la frontiera sotto costante pressione», il ministro degli esteri ungherese Péter Szijjártó ha ribadito la contrarietà ad alcuna accoglienza. «I migranti non in regola non dovrebbero essere distribuiti tra i vari Paesi europei ma rimandati a casa – fa sapere il governo ungherese – E l’Ungheria può aiutare solo in questo secondo caso». Il gruppo di Visegrad sembra quindi ancora più granitico al suo interno. I leader dei quattro Paesi del centro Europa sono convinti che l’evoluzione dello scenario negli ultimi mesi abbia dato ragione alla loro politica sui rifugiati.

L’ABBANDONO delle quote e i cambiamenti di orientamento in Austria e soprattutto in Germania, considerata la vera avversaria in questa partita, sono lì a dimostrare che tener duro rispetto alle pressioni giunte da Bruxelles ha pagato. E ormai tutti parlano del modello australiano o di spostare, di fatto, le frontiere comunitarie in Africa, come chiedeva il quartetto. Difficile quindi che in questo scenario la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria e la Polonia cambino il loro atteggiamento di fronte a una lettera arrivata da una capitale considerata di secondo rango.

La chiusura ai rifugiati tuttavia non significa che i quattro Paesi siano chiusi agli stranieri. In realtà alla Polonia e alla Repubblica Ceca, dove ci sono 300mila posizioni lavorative scoperte e una situazione di piena occupazione di fatto, fanno molta gola i lavoratori qualificati e subito inseribili nella produzione dei Paesi extracomunitari circostanti.

IL GOVERNO guidato da Babiš ha deciso di rialzare le quote per importare forza lavoro dal Ucraina, Mongolia e Serbia promettendo di rilasciare tutti i visti necessari ai datori di lavoro. Lo stesso Babiš, d’altronde, impiega nelle sue industrie manodopera extracomunitaria pagata poco più del minimo nazionale. Con l’arrivo massiccio dei lavoratori esteri le imprese vorrebbero «stabilizzare il mercato del lavoro» e quindi fare in modo che cessino i tira e molla per ogni singolo dipendente, che stanno portando a una crescita dei salari vicina al 10%. Insomma, quando ci sono i profitti da tutelare, anche la xenofobia si deve far da parte.