Che effetto farà l’emiciclo della camera dei deputati con duecento rappresentanti del popolo in meno? In quell’aula, negli ultimi cento anni – appena celebrati con una mostra e un documentario sull’opera dell’architetto Ernesto Basile – problemi con i posti a sedere ci sono sempre stati. Ma all’opposto: bisognava aumentarli. Da quando la nuova aula di Montecitorio è entrata in funzione, il 20 novembre 1918, i deputati sono cresciuti di 112 unità. Erano 518 nella legislatura cominciata il 1 dicembre 2019 – la quindicesima e ultima del regno senza Benito Mussolini tra i banchi – sono 630 oggi. Dal 1918 il numero dei deputati è sempre cresciuto, con l’eccezione delle due legislature elette con il sistema plebiscitario durante il regime fascista, quando i seggi furono ridotti a 400. Che è lo stesso numero di deputati proposto dalla riforma costituzionale di 5 Stelle e Lega che oggi sarà discussa e giovedì votata dal senato, penultimo passaggio prima del voto finale di Montecitorio e – se qualcuno vorrà proporlo – del referendum confermativo.

Serve la maggioranza assoluta dei componenti, 160 voti in senato che la maggioranza può raggiungere con qualche patema d’animo, o senza nessun affanno potendo contare sull’appoggio di Fratelli d’Italia. Dopo di che i posti a sedere bisognerà smontarli sul serio.

Per scendere da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori elettivi non basterà eliminare le sedie aggiunte all’ultimo livello dell’emiciclo sia a palazzo Madama che a Montecitorio nel 1963, quando una riforma costituzionale aumentò e stabilizzò il numero dei parlamentari (la Costituzione nel 1948 aveva previsto una composizione variabile, un deputato ogni 80mila abitanti e un senatore ogni 200mila). Tanto che c’è già chi immagina una ristrutturazione “pesante” che modifichi l’assetto ultracentenario delle aule (150 anni quella del senato) rendendo finalmente meno strette e più comode le postazioni di lavoro degli onorevoli. Viceversa tribune sovradimensionate rischierebbero di cristallizzare l’immagine di due aule semivuote, anche con deputati e senatori tutti presenti.

«Seicento parlamentari sono più che sufficienti», sentenziava il volantino delle «Riforme del cambiamento» diffuso dal ministro Fraccaro all’inizio del (fin qui velocissimo) percorso istituzionale. «L’Italia – spiega – è il paese con il più alto numero di parlamentari eletti d’Europa. Noi li riduciamo di più di un terzo (36,8%) e ci allineiamo col resto degli stati». Ma «allineare» non è il verbo corretto, meglio sarebbe stato dire che ci accodiamo. Se infatti oggi in Italia c’è un deputato ogni 96mila elettori, così effettivamente superando il Regno unito (uno ogni 101mila), l’Olanda (114mila), la Francia e la Germania (116mila), la Spagna (133mila), con la riforma avremo un deputato ogni 151mila abitanti, diventando tutto d’un tratto il paese con il più alto rapporto tra rappresentati e rappresentanti. Eloquente il confronto con la prima legislatura della Repubblica, quando la rappresentatività era due volte più forte: c’era allora un deputato ogni 80mila abitanti. Senza contare che, come effetto dell’abbassamento della maggiore età, se nel 1948 bastavano 50mila elettori per eleggere un deputato, dopo la riforma ne servirebbero quasi il triplo. L’ideale per allontanare ancora un po’ il «popolo» dai «politici».

Eppure Fraccaro ancora ieri spiegava che «gli interessi dei cittadini vengono prima delle poltrone». O come dice il volantino dei 5 Stelle «con meno poltrone c’è più democrazia». Slogan discutibili, anche solo considerando lo sbarramento che una riduzione così netta dei parlamentari porta con sé. Non parliamo della soglia esplicita del 3% prevista dalla legge elettorale – che per inciso per volontà di Lega e 5 Stelle resterà il pessimo Rosatellum – ma di una soglia implicita e automatica legata al fatto che il numero di parlamentari da eleggere nei collegi diminuirà sensibilmente. Soprattutto al senato, dove la maggioranza delle regioni non eleggerà più di quattro senatori nei collegi proporzionali. Sarà così impossibile per le liste minori, che già sono escluse dalla corsa per i seggi uninominali, conquistare sul campo un seggio senatoriale. Potranno solo sperare nel riparto nazionale dei seggi, con l’effetto di ritrovarsi con un senatore scelto in maniera imprevedibile dal micidiale flipper del Rosatellum.

Come festeggiava già ieri il capogruppo M5S al senato, il taglio dei parlamentari entrerà in vigore immediatamente, dalle prossime elezioni. La legge elettorale è stata già ritoccata allo scopo, a tempo di record. Ma nel frattempo non sono cambiati i regolamenti di camera e senato. Dove tutte le soglie a tutela delle minoranze sono oggi calcolate su 630 deputati e 315 senatori. Non solo, applicando i risultati elettorali del 2018 alla nuova camera bonsai, è facile calcolare che il più piccolo partito sopra la soglia di sbarramento – Leu – avrà meno deputati di quelli strettamente necessari a partecipare a tutte le commissioni permanenti. Che sono quattordici, sia alla camera che al senato. Oggi a Montecitorio il regolamento esclude che un deputato possa far parte di due commissioni, al senato è consentito ma fino a un massimo di tre commissioni. In entrambi i casi, i rappresentanti del partito più piccolo non sarebbero sufficienti. Democrazia, ma anche «efficienza», altra parola slogan ricorrente, sono lontani. Le commissioni, infatti, possono lavorare (e lavorano abitualmente) con un terzo dei commissari presenti. In futuro il lavoro referente per l’aula si troveranno a farlo cinque soli senatori, compresi presidente, vicepresidenti e segretari della commissione.

Infine i costi, l’argomento più usato da leghisti e grillini. In questo anticipati da un manifesto fatto stampare da Renzi durante la campagna per il referendum costituzionale: «Basta un Sì per cancellare poltrone e stipendi». «Cinquecento milioni risparmiati in una legislatura» assicurano adesso i 5 Stelle, che la volta scorsa contestavano gli annunci di Boschi, identici e basati su un numero simile di indennità da cancellare. Ma se si prendono gli ultimi bilanci interni della camera e del senato si possono prevedere risparmi più contenuti. Per 345 assegni mensili in meno, tra camera e senato, lo stato risparmierebbe 90 milioni l’anno, al lordo delle tasse che non potrebbe più incassare. Al netto il risparmio si aggirerebbe sui 70 milioni l’anno, che per cinque legislature sono molti meno del mezzo miliardo stampato sui volantini. Senza contare che meno rappresentanti del popolo, per fare lo stesso lavoro, avranno probabilmente bisogno di un maggiore aiuto. Nessuna sorpresa, allora, se aumenterà la spesa per consulenti e per il personale. Quest’ultima già molto superiore al «costo» dei parlamentari.