Ieri mattina, di buona ora, il ministro dell’agricoltura Stefano Patuanelli si è trovato davanti Stefano Puzzer, ex leader dei lavoratori portuali di Trieste e attuale fondatore del Coordinamento 15 Ottobre.

Puzzer è il volto della protesta triestina. O meglio di quella fazione che tiene insieme No Vax ed estreme destre più o meno mascherate e che nei suoi ultimi contorcimenti ha costretto il resto dei manifestanti contro il Green pass a prenderne le distanze. Patuanelli prima di diventare deputato è stato consigliere comunale del M5S proprio a Trieste, città dove torna nei fine settimana. «Non sono io a decidere ma è il popolo», dice Puzzer mascherando il ruolo che si è autoassegnato e riproponendo un topos dell’armamentario retorico populista. «Riferirò le vostre richieste al prossimo consiglio dei ministri», si smarca Patuanelli con fare istituzionale.

È davvero difficile pensare che almeno per un istante al ministro Patuanelli, oggi pacato esponente dell’ala filo-Conte Movimento 5 Stelle, non sia tornata in mente la sua vita politica precedente. Sentendo le argomentazioni di Puzzer, le stesse che si è impegnato a riportare a Draghi, a Patuanelli devono essere passati davanti agli occhi gli anni recenti della sua formazione politica, quelli in cui il M5S ha velocemente scalato la politica italiana, rastrellando consensi indifferentemente a destra e sinistra e adoperando di molti di quegli appigli narrativi che oggi serpeggiano nelle manifestazioni No Vax. Di certo, l’osservatore non può fare a meno di notare che questo coacervo di rivendicazioni e malesseri che si federa attorno al rifiuto del Green pass arriva nel paese che ha generato il Movimento 5 Stelle. Cambia la parola d’ordine. Un tempo era «onestà», e si predicava la legalità come antidoto a ogni ingiustizia. Oggi è «libertà», e dentro questo concetto si riconosce anche l’esaltazione di una sfera individuale, privata e per questo inviolabile.

Non può non ricordare, Patuanelli, che all’apice della sua parabola politica il grillismo si è presentato in maniera esplicita (e dunque rassicurante per molti «moderati» in cerca di riferimenti elettorali) come una parodia della rivoluzione. È stato la cartina di tornasole della crisi della rappresentanza e della distanza tra «gente» e «palazzo» e anche la garanzia che quel divario dovesse risolversi in pantomima del conflitto.

Oggi tocca a un ministro grillino cimentarsi con la stessa composizione sociale trasversale, inclassificabile secondo i parametri tradizionali ed espressione di cose diverse. «Delle piazze di Trieste, ci ha colpito il carattere popolare delle iniziative e la varietà di soggettività che si sono ritrovate a condividere quelle strade in un contesto di rivendicazione di un diritto necessario, come quello al lavoro», scrive il sito NoTav.info. «Il futuro è creare una nuova forza che ci rappresenti» ha detto ieri un altro attore di queste giornate, Enrico Montesano, parlando alla piazza (abbastanza sguarnita) romana.

Facendo coi parlamentari il bilancio del tracollo elettorale e blindando una segreteria di cinque fedelissimi, Giuseppe Conte ha ribadito la necessità del nuovo corso, lo stesso che ieri Roberto Fico ha descritto dicendo che bisogna stare col Partito democratico in nome di una «base valoriale comune». Eppure, lo stesso Conte percepisce che dentro il magma di quelle piazze c’è un pezzo di codice genetico pentastellato. Venerdì scorso, invitando i suoi a tenersi in sintonia con «quello che accade nei territori» per ritrovare il consenso perduto, l’ex presidente del consiglio ha tenuto a precisare: «Noi non esultiamo per gli idranti di Trieste». Nella distanza che percorrerà Patuanelli tornando a palazzo, nel divario che separa piazza Unità a Trieste da Palazzo Chigi a Roma, c’è lo spazio contraddittorio che il nuovo M5S non riesce più a colmare. Un abisso la cui profondità è stata misurata dagli astenuti alle ultime elezioni e i cui riflessi sociali e politici sono all’opera nel paese di Draghi.