Le dimissioni di Lorenzo Fioramonti piombano su un Movimento 5 Stelle senza un centro di gravità permanente. La tensione natalizia nel governo è opera di un «tecnico» percepito dai grillini come un irregolare, competente ma al di fuori degli schieramenti interni e per questo non in grado di generare un effetto trascinamento.
Era stato cooptato pochi mesi prima delle elezioni politiche. Fioramonti arrivava a Roma da Pretoria, in Sudafrica, dove insegnava economia politica da «cervello in fuga», per partecipare ad un convegno organizzato dal deputato Giorgio Sorial. «Ciò che mi colpì fu la sua capacità di comunicare la visione di paese in modo empatico», dice oggi Anna Laura Orrico, attuale sottosegretario alla cultura. Venne notato dalle alte schiere grilline e catapultato al collegio uninominale di Torre Angela, la periferia sudorientale della capitale dalla quale proviene. Era accreditato come ministro dello sviluppo economico nel dream team che Luigi Di Maio presentava prima del voto.

Poi il M5S era andato al governo con la Lega, il suo collega economista Andrea Roventini si era tirato fuori da un’alleanza sconveniente e Fioramonti aveva accettato di fare il vice nel ministro all’istruzione del leghista Marco Bussetti. Qui si era fatto ricordare per aver invitato i precari della ricerca che lo accusavano di non aver rispettato le promesse elettorali a «non votare più M5S». Nel mezzo delle tensioni sui finanziamenti pubblici Fioramonti aveva uno spazio settimanale nel palinsesto di Radio Radicale. Eppure nelle strane geometrie grilline risaltava la sua fedeltà al governo gialloverde. Affidabilità che venne premiata quando fu scelto nel Conte bis come ministro della pubblica istruzione.

Da questa posizione si è fatto subito notare minacciando di volersi dimettere, praticamente all’indomani del giuramento al Quirinale, se non fossero stati stanziati i fondi adeguati a rilanciare il comparto. Fioramonti veniva incasellato tra i (pochi) ministri grillini ascrivibili all’ala di Roberto Fico. Adesso, dal M5S rispondono con freddezza («Guardiamo avanti, c’è piena fiducia nel premier Conte») e tirano fuori storie di mancate restituzioni, anche se il presidente M5S della commissione cultura alla camera Luigi Gallo, fichiano, prova a lanciargli una scialuppa: «In un epoca di egoismi, di arrivismo e di ambizioni sfrenate Lorenzo ha dato un segnale in totale controtendenza».

Usa tutt’altri toni Fabiana Dadone, ministra della pubblica amministrazione considerata anche lei di area Fico: «Trovo stucchevole che chi professi coraggio agli elettori poi scappi dalle responsabilità politiche». Dadone attacca in nome di un M5S governista e pragmatico che ha poco a che fare con i toni barricaderi delle origini: «Bisogna parlare poco e lavorare molto. Governare spesso non è trendy, non è pop e non è ‘social’». Per la successione si fa il nome di Nicola Morra: il presidente della commissione antimafia, già dato ministro l’estate scorsa, sarebbe pronto a tornare in pista.

Fioramonti, invece, è in partenza per il gruppo misto. Alcuni scenari lo descrivono come promotore della fantomatica scissione del M5S attesa da settimane, per dar vita ad un gruppo che resterebbe nel recinto della maggioranza per fare da ago della bilancia. Ma anche qui le cose sono meno lineari di come si vorrebbe. Difficilmente, ad esempio, deputati come Roberto Cataldi, che si è sempre definito «centrista», o Giorgio Trizzino, che lavora apertamente per una prospettiva di centrosinistra e moderata del M5S, si riconoscerebbero in un gruppo che vorrebbe fare da pungolo «a sinistra» del governo.