Politica

Il grillino con i piedi in due scarpe che ora si gioca tutto

Il grillino con i piedi in due scarpe che ora si gioca tuttoLuigi Di Maio

Luigi Di Maio Dalla presidenza della camera al Conte 1 e 2

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 23 gennaio 2020

Luigi Di Maio fa un passo indietro ma spera di farne due in avanti. È costretto a muoversi perché rischia di rimanere stritolato tra le due opzioni del M5S. Il partito che per stile comunicativo, prima che politico, ha sempre evitato di apparire «divisivo» per ironia della sorte si trova davanti a un bivio. Beppe Grillo ha scelto di collocare il suo M5S nel campo progressista e ambientalista. La cosa non sta bene ad Alessandro Di Battista e a una parte di grillini. Di Maio ha interpretato negli ultimi mesi (almeno dal Papeete in poi) la sua funzione di «capo politico» indicando una terza via: sostiene che la missione del M5S è quella di posizionarsi al centro dello schieramento politico e restare al governo in qualità di «ago della bilancia».

Questa attitudine a restare coi piedi in due scarpe, a sciogliere i conflitti invece di cavalcarli, lo ha reso interprete ideale dello schema grillino ma potrebbe essere la sua condanna politica. Di Maio ha mosso i primi passi a Pomigliano: da rappresentante del suo liceo garantì che non ci sarebbero state più occupazioni della scuola. Ha affinato la sua tecnica fin da quando, nel 2013 ad appena 26 anni, viene notato da Gianroberto Casaleggio tra le decine di neo-eletti in parlamento. Dopo 20 giorni da deputato è il più giovane vicepresidente della camera dell’Italia repubblicana. Non sappiamo se studi da leader, ma è uno dei pochi cui viene riconosciuta la costanza di informarsi sui dossier. Di certo, una botta decisiva all’autostima gliela dà Matteo Renzi un anno dopo quando, appena nominato presidente del consiglio, manda un pizzino a Di Maio individuandolo come possibile interlocutore e chiedendogli un confronto. Quest’ultimo resiste ma si sente investito di un qualche potere: capisce che davvero può aspirare a qualcosa di più.

La sua nomina a «capo politico» arriva nel settembre del 2017 previa consultazione su Rousseau. Da allora in poi Di Maio prende i pieni poteri e traghetta il M5S fino al governo, missione che ha rivendicato ieri al Teatro di Adriano e che annuncia in piazza Bocca della Verità il 2 giugno del 2018, quando i 5S vengono convocati per chiedere l’impeachment del presidente della repubblica Sergio Mattarella e invece scoprono che i loro eletti stanno facendo anticamera al Quirinale per entrare nella stanza dei bottoni. È allora che Di Maio dice ai sostenitori confusi: «Non dovete più fischiare, perché adesso lo Stato siamo noi».

Diventa vicepremier e doppio ministro. «Unire parte datoriale e dipendente può creare pace sociale», dice oscillando da una parte all’altra di via Veneto, dal ministero del lavoro a quello dello sviluppo economico. Di Maio mette di nuovo in scena la capacità del M5S di essere ubiquo politicamente, trasversale fino all’inverosimile in modo da rastrellare voti. Il gioco si rompe quando Salvini decide di staccare la spina al governo. Di Maio appare inerme e in difficoltà perché subisce la crisi dichiarata unilateralmente dalla Lega. Per questo ne esce indebolito a vantaggio di Giuseppe Conte, che invece ha ricevuto dai capi del G7 la patente di uomo delle istituzioni, o del capogruppo al senato Stefano Patuanelli, che raccoglie la stima dei parlamentari e rappresenta il sommovimento degli eletti che di fatto, in quei caldi giorni di agosto, gli impongono di fare il governo col Pd.

Di Maio accetta, tira la corda fino all’ultimo, minaccia di far saltare il tavolo per restare vicepremier. Poi incassa il posto di ministro degli esteri. I maligni dicono che si fa convincere quando gli dicono che insediarsi alla Farnesina è propedeutico a diventare presidente del consiglio.

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