Una vita perduta, che ha fatto esperienza della caduta, della distruzione e dell’assenza di speranza, come può non cedere alla morte e risorgere?

Eppure succede. Accadono ripartenze inaspettate, a volte inspiegabili. Succede alla vita di un singolo individuo, ma la storia ci insegna che anche un popolo può rinascere dalla devastazione, sia essa ad opera della natura o della mano dell’uomo stesso. Si tratta di eventi che credo abbiamo il compito di interrogare, per coglierne fin dove è possibile le preziose logiche.

La psicoanalisi, che mi orienta nelle riflessioni che propongo, ci insegna come la soggettività e il sociale siano inscindibili. Perciò quello che mi interessa è partire da un’angolatura soggettiva, una vita con le sue particolarità e la sua storia, per aprire a questioni sociali attuali. L’occasione mi è offerta da un tema che mi è caro e di cui ho cominciato ad occuparmi, l’adozione. Una tesi che reputo importante, sottovalutata, per molti difficile da tenere a mente e faticosa da praticare è che l’apertura all’Altro, al diverso, allo straniero, la disposizione all’incontro, all’ibridazione, al meticciato, custodisca il segreto della generatività e la scintilla che può riaccendere una vita.

Per avvalorare questa tesi mi farò aiutare dalla storia di un bambino che, spinto a partire dalla madre biologica intenzionata a donargli la possibilità di un futuro, finirà per essere adottato in un altro paese da quello di origine. La storia è narrata nel romanzo Vai e Vivrai di Radu Mihaileanu e Alain Dugrand, le cui pagine vive e toccanti ci raccontano come la storia di un bambino porti con sé quella di un popolo, e come la caduta dei riferimenti alla propria storia possa condurre ad un indebolimento della vita fino alla sua perdita se non si dà la possibilità di un aggancio alla prosecuzione della storia, offerto dall’incontro con qualcuno che dia al soggetto un posto speciale. Viene alla mente un riferimento, purtroppo reale, noto e piuttosto recente, le osservazioni condotte da René Spitz su bambini ospedalizzati che, pur adeguatamente puliti e nutriti ma privati di una cura che veicola un affetto e un’attenzione particolare, subiscono un rallentamento dello sviluppo psicofisico che può portare fino alla morte. Nel campo delle adozioni internazionali è frequente riscontrare un certo ritardo dei bambini in arrivo, che all’istaurarsi di un nuovo legame con la famiglia adottiva scompare, lasciando il posto a creatività e intelligenza in tempi così rapidi che sembra fossero lì ad aspettare di essere chiamate in causa. Al nostro bambino, fortunatamente, succede proprio questo, dopo però essere caduto nell’abbandono che lo porta al rifiuto aggressivo degli altri e al disinteresse per tutto ciò che lo circonda fino all’assenza dell’appetito che lo debilita.

Ci sarebbe molto da dire su quell’istante che mostrano bene le pagine del libro. Quello di cui mi interessa dare un cenno è il momento dell’apertura, dell’assenso del bambino all’amore della nuova madre che coincide con l’assenso della nuova madre a farsi contagiare da lui. Il bambino si rivitalizza, ai due si apre un mondo nuovo, in cui ciascuno dei due può tracciare una storia fatta anche di trame dell’altro prima rifiutato.

A volte ci troviamo di fronte a ripartenze inspiegabili se non si è disposti a cogliere la straordinaria forza generativa dell’incontro con l’Altro, e non ci accorgiamo che con un atteggiamento miope e di chiusura diamo l’avvio a cattive conseguenze a livello umano, soggettivo e sociale.

Lo psicoanalista Aldo Raul Becce caro amico e collega che lavora da molti anni nel campo dell’adozione, a cui devo riflessioni importanti in proposito, ha parlato di chi è adottato come migrante: lascia le proprie credenze, le abitudini, la propria terra con i suoi odori e i suoi sapori, per approdare a un’altra terra, nella speranza che anche per lui si apra un mondo nuovo.