Si moltiplicano in molti paesi le manifestazioni, anche violente, contro le misure di contenimento del Covid-19: mascherina, distanziamento, lockdown, obbligo vaccinale o green pass (che lo è di fatto). Non se ne può ignorare il significato politico (se lo hanno) o culturale e antropologico, che c’è; meno che mai trattarle con sufficienza.

Sono in tanti, non ci sono solo in Italia: debolezza e inconsistenza della politica, se hanno a che fare con esse, sono generalizzate. Prevalgono impronte sovraniste e anti-immigrati e rilevanti presenze di nazisti. Sono no-vax anche loro? Non è detto, ma hanno campo libero in piazze dove nessun’altra forza organizzata si impegna a promuovere un orientamento diverso. Come negli stadi.

Ma molti cartelli e slogan non rivendicano solo una generica libertà (che può avere le più diverse declinazioni), vertono sulla difesa dei diritti dei lavoratori, soprattutto quello di lavorare e di scioperare, sulla volontà di non dividersi tra vaccinati e non, sulla lotta ai poteri forti. D’altronde i portuali di Genova, in prima linea contro il traffico di armi, hanno solidarizzato con quelli di Trieste.

C’è una grande confusione in quelle posizioni, brodo di coltura ideale per fake news e complottismo paranoico. Così, in una manifestazione tedesca di no-vax si protestava contro l’invasione di immigrati contagiosi perché non vaccinati… E in altre si vedono cartelli di protesta contro il green paSS con le s delle SS, o manifestanti con le divise degli ebrei nei campi o la stella di David sul petto (per loro il green pass è «nazismo») accanto a cartelli che denunciano il complotto ebraico, resuscitando i Savi di Sion. Verosimilmente non sanno niente né degli uni né degli altri (e questo lo dobbiamo alla scuola e ai media).

Così una parte consistente di una manifestazione romana si è fatta trascinare da una squadra di nazisti all’assalto della Cgil quasi fosse un ufficio governativo, senza verosimilmente comprendere o condividere il significato di quella devastazione.

Contribuisce a quella confusione la continua esibizione di virologi che si contraddicono tra loro e con se stessi, le oscillazioni del governo, i voltafaccia di molti partiti e altrettanti «governatori» di Regioni, il grave silenzio su dati che potrebbero attenuare molte ostentate certezze. E anche il fatto che a invocare vaccino per tutti sia quella stessa Confindustria che per mesi ha obbligato gli operai ad andare al lavoro senza alcun presidio. L’importante – lo si è capito – è la ripresa, il Pil, la crescita, non la salute di chi lavora.

Quelle mobilitazioni riflettono un crollo verticale della fiducia nelle istituzioni, nei governi, nei partiti; la percezione di essere in mano a una generazione di politici irresponsabili, catturati dagli interessi di big pharma, tanto da non avere il coraggio di imporre la moratoria sui brevetti e un argine ai guadagni miliardari.

Ma, soprattutto, con l’imposizione di una «cura» uguale per tutti, senza attenzione alla persona (se non quando sta tirando le cuoia) e alla prevenzione, puntando sulle cause.

È mancato, sulla pandemia, sulle misure di contrasto e soprattutto sulla riorganizzazione della sanità in funzione della prevenzione, come d’altronde manca sulla crisi climatica e sulla cosiddetta transizione un dibattito pubblico all’altezza dei cambiamenti radicali che impongono: alle nostre vite, ma anche al sistema produttivo.

Di qui la convinzione che per l’establishment mondiale il futuro della sanità sia un sistema ipertecnologico da cui i «poveri della Terra», qui come nel Sud del mondo, dovranno sottomettersi senza discutere o essere esclusi; nella convinzione che qualcuno possa restar sano in un mondo malato.

Una percezione facile da strumentalizzare ha suscitato la ribellione di una platea ben più vasta dei pochi che si oppongono ai vaccini – o a questi vaccini – per fede, convinzione o affiliazione a comunità che ne temono l’azzeramento dei risultati ottenuti con anni di cure alternative. Ed è questa percezione che fa provare a molti manifestanti «la gioia della ribellione», l’orgoglio di una denuncia a cui tutte le forze politiche, istituzionali e culturali evitano di dar voce.

Quell’orgoglio che si esprime nel refrain cantato nei cortei: «La gente come noi non molla mai», che non ha niente a che fare con il truce «Boia chi molla» dei caporioni fascisti della rivolta di Reggio di 50 anni fa, né con il glorioso «Non mollare» dei fratelli Rosselli, di cui ben pochi dei manifestanti sanno qualcosa.

Quelle manifestazioni, proprio per la loro atroce confusione, sono la vera «rappresentanza» – o rappresentazione – di quella metà di italiani che non votano più, che a torto vengono spesso presentati come orfani di una fantomatica sinistra che non sa più mobilitarli (ma che una volta ricostituita potrà sempre recuperarli…). Ma non è così. Perché vanno invece accostati uno a uno, una a una, con un atteggiamento di ascolto umile e privo di troppe certezze.