Quinto contributore netto dell’Unione Europea con 4,4 miliardi di euro nel 2016, l’Italia continua a scontrarsi con un problema storico: l’incapacità di spendere i fondi comunitari o di utilizzarli in maniera tempestiva. Eppure, sostiengono i magistrati contabili della Corte dei Conti nella relazione annuale inviata ieri al parlamento sui rapporti finanziari con la Ue, lo sprint finale effettuato sulla programmazione precedente – quella del 2007-2013 – ha permesso di recuperare i forti ritardi con i quali era partita. Tranne che sulla politica agricola e su quella della pesca, dove sono stati raggiunti risultati «disomogenei», il risultato è vicino all’integrale assorbimento delle risorse assegnate al nostro paese.

RISULTATO positivo, in anni in cui le spese per investimenti sono state ridotte quasi allo zero. Ma non soddisfacente perché questa montagna di denaro non va al Welfare o ai diritti sociali, se non in quantità minima legata al «workfare» o alla produzione di lavoro povero e precario – il flop della «garanzia giovani». Considerati i vincoli stringenti dell’Ue, i fondi sono l’unica risorsa per la spesa di sviluppo. Non riuscire a spenderli, o a impiegarli secondo una programmazione improvvisata, produce un circolo vizioso sistemico da cui è difficile uscire. Pochi, e disordinati, investimenti, poco lavoro e povero, nessuna grande opera sul Welfare e i diritti, enormi disparità tra regioni che sanno usare i fondi e altre che restano al palo. Un blob micidiale.
IL PROBLEMA SI RIPROPONE con la nuova programmazione 2014-2020. A fine 2017 sono state spese «cifre irrilevanti» sostiene la Corte dei Conti. «La capacità di spesa e di pagamento è ben lungi da registrare i livelli attesi, sebbene al suo esordio abbia visto importanti novità in termini di dotazione di strumenti regolatori, programmatori in quasi tutti i programmi operativi nazionali e regionali». Per i giudici contabili «molti adempimenti preliminari non sono stati neppure definiti».

DALL’ANNO CORRENTE si intravedono miglioramenti, ma «solo in via quasi esclusiva, dal punto di vista degli impegni».Secondo la Corte dei conti esiste una notevole disparità nella capacità di spesa e questo crea un «effetto paradosso»: «le regioni più virtuose – si legge nella relazione- sono generalmente quelle più sviluppate che meno avrebbero bisogno delle politiche di coesione». Quelle invece che ne avrebbero bisogno, al Sud per esempio, non riescono a rispettare i tempi. Questo il paradosso: chi più ha, più riceve e spende. Chi ha meno, meno riesce a spendere. Una coesione disunita, una programmazione diseguale.

NELLA COMPARAZIONE tra la nuova e la vecchia programmazione, la Corte dei conti ha registrato una diminuzione dell’apporto italiano al finanziamento del bilancio Ue: 15,7 miliardi di euro, risultato di una flessione del 4,7 per cento rispetto al 2015. Calano anche le somme accreditate per l’attualzione delle politiche europee; da 12,07 a 11,3 miliardi, meno 6 per cento), risultato di un minore assorbimento dei fondi. In questa cornice, i magistrati contabili ricordano che in cinque anni l’Italia ha pagato oltre 400 milioni di euro di penali per violazione delle normative. E preoccupa il numero delle procedure aperte, soprattutto per quanto riguarda i programmi operativi nazionali (Pon, 65,6 per cento), seguono i programmi regionali (Por, 34,4 per cento), soprattutto nel Meridione.

PICCATA LA REAZIONE del governo. La Corte dei Conti ha rovinato la festa elettorale del pd nel giorno dei dati Istat sull’aumento congiunturale minimo del potere d’acquisto. «Sono dati superati – ha risposto il ministro per la Coesione Claudio De Vincenti – La spesa dei fondi strutturali è a 2,6 miliardi di euro (5,2% fopndi Fesr e Fse) e rispetta gli obiettivi della Commissione Ue per l’Italia nel 2017. Gli interventi in fase di attuazione sfiorano i 20 miliardi (il 38,8%), in linea con la media europea».