Karma Clown. Dispacci da una nazione iperreale (pp, 228, euro 16, edizioni Racconti) è la prima raccolta di racconti «indiani» pubblicata da Altaf Tyrewala, autore indiano anglofono classe 1977 con all’attivo già due romanzi. La collezione di istantanee, più che «indiana» nel senso ampio del termine, è circoscritta entro i molteplici mondi della megalopoli di Mumbai, dove Tyrewala risiede sin dalla conclusione dei suoi studi, laurea in marketing a New York.

Volendo incasellare Tyrewala in una macrocategoria letteraria, giudicando la sua opera solo dai racconti di Karma Clown, emerge il classico identikit dell’indiano migrato di ritorno, col suo occhio critico e vivace puntato su un ecosistema umano urbano dove spunti e contraddizioni si palesano ovunque si posi lo sguardo.
Nel panorama della letteratura indiana pubblicata in italiano si tratta di uno sguardo fresco, specie nella variante dei racconti, un azzardo della piccola casa editrice Racconti che merita di essere premiato. Per le strade e nelle case di Mumbai, dove lo scarto tra l’upper middle class e il sottoproletariato è tra i più evidenti nel panorama del subcontinente indiano, non è difficile trovare storie meritevoli di essere raccontate.

Più complicato è scegliere come e quanto farlo.

Tyrewala, decidendo di includere in una sola raccolta un’ampia gamma di approcci, si pone un obiettivo ambizioso di armonia probabilmente al di sopra delle proprie capacità, dando vita a un mosaico di racconti fatto di molti tasselli assolutamente pregevoli – con intuizioni esilaranti – e altre tessere «da contorno», a tratti riempitive.

Sulla lunghezza breve o brevissima Tyrewala dà il meglio, illuminando con una prosa colloquiale e in prima persona delle vicende assurde eppur verosimili. Il picco, nelle prime pagine, lo raggiunge con l’arringa da una pagina di un regista hard indiano folgorato sulla via del «pornonazionalismo» (Il regista di film porno), replicando con la tragicommedia orchestrata intorno al furto di un telefono cellulare (A proposito del tuo cellulare). Più tradizionali e intimi gli episodi dedicati a una donna delle pulizie gravata dalla carenza di acqua nel proprio slum (Acqua d’oro) e al tema della vecchiaia per i genitori dei nuovi indiani cosmopoliti (Noi, i felici).

Tra le intuizioni tecniche più sorprendenti è da evidenziare l’impianto narrativo di World Trade Center, una panoramica sull’eterogeneità umana all’interno di un grattacielo adibito a uffici che caratteristiche pienamente cinematografiche: un unico piano sequenza in cui i diversi protagonisti si passano il testimone della vicenda.

Mmyum’s, che ispira il titolo della traduzione in italiano curata da Gioia Guerzoni, introduce la variabile del realismo magico, concentrandosi sull’improvviso «risveglio» di due pagliacci mascotte di una catena di junk food americano. I due Arnold, dotati di una vita senza il beneficio dell’esperienza, faranno i conti con la giungla urbana di una Mumbai spietata fatta di no-global (un po’ macchiettistici), vandali, disperati, poliziotti corrotti, padroni senza cuore.