La secca smentita giunta da una fonte ufficiale saudita del contenuto delle rivelazioni fatte dal ministro dell’interno iracheno Qassem Araji, secondo le quali Riyadh vorrebbe aprirsi al dialogo con l’Iran, accredita la tesi di chi aveva visto nei recenti inviti a visitare il Paese rivolti dall’Arabia saudita ad importanti esponenti sciiti iracheni – tra i quali il sayyed Moqtada Sadr – solo un modo per scompaginare i ranghi sciiti nel Paese dove Tehran esercita una forte influenza dalla caduta di Saddam Hussein. La posizione di Riyadh quindi nei confronti dell’Iran resta quella espressa lo scorso maggio dal principe ereditario Mohammed bin Salman, in una intervista alla tv Mbc, in cui affermò che «il dialogo (con l’Iran) è impossibile a causa della sua fede nel vali-e-faqih e nell’attesa del Mahdi». Un attacco diretto alle dottrine del padre della rivoluzione islamica Ruhollah Khomeini e alle fondamenta dello Sciismo che ha avuto lo scopo di tracciare una frattura netta, insanabile, prima di tutto da un punto di vista religioso e poi su tutto il resto.

Quello di Riyadh nell’Iraq post-Isis è un piano ambizioso, che vuole assicurare, attraverso un accordo politico, un’ampia autonomia alle regioni sunnite sunniti, sul modello curdo, in un Paese popolato in maggioranza e governato dagli sciiti. Allo stesso tempo punta ad erodere l’influenza iraniana puntando sull’identità araba degli sciiti iracheni. Dopo la visita a sorpresa del ministro degli esteri saudita Adel al Jubeir a Baghdad e gli incontri avvenuti nelle ultime settimane, Riyadh e l’Iraq hanno rilanciato le relazioni e riaperto i transiti di frontiera rimasti chiusi per quasi trent’anni – è attesa anche l’inaugurazione di un consolato saudita nella città santa sciita di Najaf – e ora stanno negoziando un’intesa che darebbe all’Arabia saudita un ruolo di primo piano nella ricostruzione delle città sunnite ell’Iraq devastate dalla guerra: Mosul, Tikrit, Ramadi e Fallujah. Secondo alcuni calcoli ci vorranno 100 miliardi per ricostruirle e i sauditi sono pronti a fare la loro parte.

Da parte irachena sono giunte subito reazioni positive alle intenzioni manifestate dagli al Saud. Il primo ministro Heider al Abadi e lo stesso Muqtada Sadr hanno affermato durante la visita in Arabia saudita che la rinegoziazione dello status dei sunniti iracheni – che hanno perso i loro privilegi dopo la caduta di Saddam – deve essere centrale nei programmi del Paese dopo le elezioni politiche attese il prossimo anno. E non è mancata anche una sviolinata per Donald Trump. Secondo Abdulbari al Zebari, capo della commissione per le relazioni esterne del Parlamento iracheno, «I rapporti (tra iracheni e sauditi) stanno crescendo più che mai grazie all’Amministrazione americana che aiuta l’Arabia Saudita e il Golfo a ricostruire le relazioni con il resto della regione. Gli iracheni – ha aggiunto – accolgono con favore tutti i finanziamenti esteri o regionali».

L’appello agli sciiti iracheni a recuperare le “radici arabe” è un punto centrale della strategia saudita e arriva mentre l’Iraq si spacca sul futuro delle Unità di mobilitazione popolare (Ump), le forze paramilitari sciite, risultate decisive nei conbattimenti contro l’Isis. Molti vorrebbero scioglierle, molti altri chiedono di assorbirle nell’Esercito, ma solo quelle che includono cittadini iracheni. Il mese scorso il ministero delle difesa ha accolto nelle forze armate 1000 uomini della Divisione sciita da combattimento “Abbas” che fa capo alla guida religiosa del paese l’ayatollah Ali Sistani, da anni diffidente verso l’Iran. Sistani peraltro chiede il rientro in patria di tutti gli iracheni andati a combattere in Siria dalla parte del presidente Bashar Assad. Sviluppi e dichiarazioni che sono seguiti con grande attenzione a Tehran dove la leadership politica tace. La stampa invece non manca di criticare apertamente Muqtada Sadr e gli altri esponenti iracheni che, denuncia, farebbero il gioco dei sauditi.