Il grande freddo: forse il commento più significativo alla rielezione di Netanyahu non è quello che c’è stato ma quello che non c’è stato. La reazione della Casa Bianca è indice del disappunto per la conferma di una nomina che pareva ormai archiviata: l’amministrazione Obama ha fatto le sue congratulazioni al popolo israeliano, ma non a Netanyahu.

Il giorno precedente al voto, gli Stati Uniti avevano ripetuto che Obama avrebbe lavorato «con qualsiasi esecutivo il popolo israeliano sceglierà», ma che i rapporti con Bibi non siano idilliaci è storia vecchia. Netanyahu ha risollevato sorti che sembravano segnate anche grazie al gran colpo del discorso al Congresso, il 3 marzo, aperta sfida al presidente orchestrata con i parlamentari repubblicani.

Meglio, deve pensare Obama, abbassare i toni dello screzio. La portavoce del Dipartimento di Stato, Jen Psaki, riferendosi alla soluzione a due Stati e alla minaccia di Netanyahu di seppellirla definitivamente, ha sdrammatizzato: «Si dicono tante cose in campagna elettorale. Aspetteremo e vedremo le politiche del nuovo governo».

Non urla di gioia neppure l’Unione Europea. In una nota l’Alto Rappresentante europeo agli Affari Esteri, Federica Mogherini, si è congratulata con Netanyahu «per la vittoria». Un atto dovuto. Ha poi aggiunto che Bruxelles «è impegnata a lavorare con il governo sia per i proficui rapporti bilaterali che per il rilancio del processo di pace».

Già alla vigilia del voto la dichiarazione in zona Cesarini di Netanyahu («Votatemi e con me non ci sarà mai uno Stato di Palestina») aveva fatto suonare i campanelli d’allarme. La Ue a parole punta alla soluzione a due Stati come sola via di uscita dal conflitto e, seppur incapace di fare reali pressioni politiche e economiche su Israele, uno dei suoi principali partner commerciali, non ha mancato in passato di prendere alcune misure significative (l’etichettatura dei prodotti delle colonie e il bando per enti pubblici e compagnie private a investire in società israeliane impegnate negli insediamenti coloniali).

Commenti – un po’ campati per aria – giungono dal Cairo, impegnato a imitare le politiche israeliane contro Gaza lungo il proprio confine: «L’Egitto si attende che la coalizione di governo riprenda in mano il dialogo con i palestinesi al più presto», dice il Ministero degli Esteri. Prevedibile la reazione dell’Iran, che suo malgrado ha aiutato il sorpasso del Likud ai danni dell’avversario Herzog. Lo spauracchio del nucleare di Teheran, insieme allo Stato Islamico “alle porte di Israele”, ha fatto come sempre il suo dovere spingendo verso destra un elettorato ossessionato dalla sicurezza. «Per noi non c’è differenza tra i partiti del regime sionista – ha detto la portavoce del Ministero degli Esteri, Marizeh Afkham – Sono tutti aggressori e sono uguali per quanto riguarda i crimini commessi contro i palestinesi».

La vittoria di Bibi è giunta proprio mentre in Svizzera il segretario di Stato Usa Kerry era seduto al tavolo del negoziato sul nucleare iraniano, che Netanyahu sta tentando di boicottare in ogni modo. Kerry ha rifiutato di commentare i 30 seggi conquistati dall’alleato-avversario. Ma tra gli analisti c’è anche chi prospetta una rottura: secondo Martin Indyk, membro del team di mediatori Usa nell’ultimo round di negoziati tra Israele e Palestina, è possibile che Obama voti in Consiglio di Sicurezza Onu a favore di una risoluzione che detti i principi chiave dell’accordo di pace. Un’imposizione che Israele difficilmente potrebbe accettare ma che sarebbe lo specchio del grande freddo sceso tra i due alleati.